Amministrative. Roma, il grande vuoto

ROMA – Come ha scritto, da par suo, Marco Damilano sul numero de l’Espresso in edicola questa settimana: i partiti, a Roma, “non ci sono più. Per loro l’apocalisse è già arrivata da tempo. E tutti hanno paura che, dopo il voto, ci sarà da governare il vuoto, come profetizzava Peter Mair. A Roma. E in Italia”.

“Governare il vuoto”, esattamente. Il titolo del saggio del politologo irlandese si addice alla perfezione al contesto nel quale, fra tre settimane, sarà chiamata a votare la Capitale. Mai come stavolta, infatti, a Roma manca tutto. Mancano, prima di ogni altra cosa, candidati ritenuti credibili dall’opinione pubblica: la Raggi, Giachetti, Marchini e la Meloni, con tutto il rispetto, sono visti, anche dai poteri forti e dal cosiddetto “generone” romano, più come figure proposte dai rispettivi partiti per disperazione che come soggetti dotati della vocazione necessaria per assumersi un incarico tanto gravoso, per giunta in una città spolpata da Mafia Capitale e nella quale regna ormai una sfiducia e un disincanto collettivo.

Mancano, in secondo luogo, i programmi: i candidati li presentano, si impegnano, vanno in giro, battono a tappeto le periferie, avendo capito molto bene che queste elezioni non si vincono nei salotti buoni, a loro volta disillusi, e che anzi i legami con la borghesia e i quartieri in sono visti dal resto della città come punti a sfavore; ci mettono l’anima, questo va detto, ma i programmi latitano.

Qualche proposta qua e là, molta fantasia, specie da parte della Raggi, la concretezza da uomo del fare di Marchini, qualche parola d’ordine dei rispettivi campi per quanto riguarda Giachetti e Meloni e poco altro.

Nulla a che vedere con la chiarezza e l’intensità delle campagne elettorali che hanno condotto alla guida delle rispettive capitali Sadiq Khan o Anne Hidalgo, nulla a che vedere con i successi di Podemos a Madrid, con Manuela Carmena, e a Barcellona, con il primo cittadino anti-sfratti Ada Colau, e nulla a che vedere nemmeno con quanto sta avvenendo in altre città italiane, specie a Milano e a Torino, dove quanto meno si contrappongono idee diverse su come amministrare i beni comuni o, sotto la Madonnina, diverse sfumature del medesimo progetto.

A Roma no, si annaspa, ci si interroga, tutto è sospeso e avvolto in un drammatico clima di attesa, con l’aggiunta di alcuni disastri d’immagine come quello della sinistra, naufragata insieme alla candidatura di Fassina (escluso per un errore nella presentazione delle firme) e, di fatto, suicidatasi anche in vista della contesa nazionale che, con ogni probabilità, si terrà il prossimo anno.

Perché a parte De Magistris, che dovrebbe spuntarla a Napoli, va detto oggettivamente che la sinistra in queste elezioni non c’è. A Bologna, a Torino e a Milano è poco più di una nobile testimonianza, a Napoli si affida ad un esponente della società civile che talvolta si lascia andare a toni da Masaniello e ad affermazioni sopra le righe, a Roma, dove Fassina non sarebbe mai arrivato al ballottaggio ma avrebbe comunque potuto dire la sua, si è dilaniata fra la parte di SEL disposta a seguire il candidato sindaco nel suo progetto di rottura con il PD e la parte di SEL che, invece, almeno nei municipi, nonostante tutto, voleva perseguire la logica dell’accordo strategico con i democratici.

Si brancola nel buio su tutti i fronti. Fassina non c’è più e i suoi voti andranno, per lo più, alla Raggi e all’astensione: nel primo caso per curiosità e per mettere alla prova il M5S in una grande città, nel secondo per rabbia e per sconforto. Qualcosa andrà anche a Giachetti ma meno di quanto il vicepresidente della Camera speri: chi è uscito dal PD, nutre verso quel partito un avversione totale e Giachetti, appena una settimana fa, non ha trovato di meglio che dichiarare al “Corriere della Sera” che il senso della sua candidatura è anche quello di rompere con una parte della sinistra del suo stesso partito; figuriamoci con chi da quel partito è uscito a causa di posizioni come le sue!

Il PD, tuttavia, si sta riprendendo, agevolato anche dalla consistenza non proprio a prova di bomba dell’esponente grillina e delle vicende giudiziarie e interne che stanno coinvolgendo alcuni amministratori locali pentastellati (Pizzarotti e Nogarin su tutti); fatto sta che le ferite di Mafia Capitale, dei circoli commissariati, del rapporto durissimo di Barca, delle lacerazioni interne, degli scontri fra capicorrente caduti in disgrazia e nuovi capi e capetti comparsi di recente sulla scena, tutto questo minestrone indigesto sembra costituire una zavorra spaventosa per un Giachetti che sta facendo quel che può, aiutandosi con l’esperienza e con una discreta conoscenza della città, frutto del passato da capo della segreteria e poi da capo di gabinetto di Rutelli durante l’amministrazione di quest’ultimo e di una spiccata romanità che gli consente comunque di tenersi in piedi di fronte allo tsu-nami. Una figura dignitosa, benché il nostro avrebbe preferito, con ogni evidenza, continuare a svolgere indisturbato il ruolo di vice della Boldrini.

La Raggi è la grande incognita di questa competizione, in quanto il suo potrebbe essere, più che mai, un voto, come detto, di curiosità: “Vediamo come si comportano! Vediamo se sono all’altezza o sono solamente un bluff!”

A nostro giudizio, se dovesse essere eletta, l’esponente vicina a Di Battista ma per nulla amata, a quanto pare, dalla Lombardi e dal consigliere uscente De Vito (candidato la volta scorsa dai 5 Stelle e in lizza fino all’ultimo con l’avvocatessa che aveva preferito omettere dal curriculum l’esperienza lavorativa nello studio Previti) rischia di pagare l’inesperienza e la pressione di attacchi che se sono forti adesso, diventerebbero schiaccianti un minuto dopo l’insediamento in Campidoglio.

Perché, come racconta sempre Damilano, la battuta più gettonata nei salotti buoni della Capitale è questa: “A Milano, come finisce, finisce bene. A Roma, come finisce, finisce male”. Dal loro punto di vista, ci sta. La Raggi non è amata dai poteri forti, e questo è un punto a suo favore, ma non è nemmeno una figura granché empatica, non ha proposte coinvolgenti, non riesce a togliersi quella patina torquemadesca che caratterizza in questa fase il M5S e, oltretutto, sembra davvero troppo ortodossa, a cominciare dal codice di comportamento imposto dall’alto e fatto firmare ai candidati, il quale prevede una sanzione pecuniaria di centocinquantamila euro in caso di eventuale cambio di casacca. Non funzionerà mai: è mera propaganda, in quanto non esiste il vincolo di mandato e qualunque giudice darebbe ragione al “reprobo voltagabbana”; fatto sta che è un segnale di come potrebbe muoversi la possibile giunta Raggi, prestando il fianco ai sarcasmi e alle accuse feroci dei detrattori.

La Meloni è la destra pura, sostenuta da Salvini nel tentativo di dare una spallata generazionale a un Berlusconi ormai al capolinea ma comunque capace, all’ultimo momento, di ritirare la disastrosa candidatura di Bertolaso e di affidarsi al ben più solido Marchini: incarnazione perfetta del Partito della Nazione.

Parliamoci chiaro: la Meloni non ha alcuna possibilità di accedere al ballottaggio (l’eredità di Alemanno, anche se lei cerca di nasconderla e di farla dimenticare in ogni modo, pesa come un macigno), Marchini sì e non è da escludere che sia il vero candidato tanto di Berlusconi quanto di Renzi, visto e considerato che sul PD grava, oltre a Mafia Capitale, l’ombra delle dimissioni imposte a Marino con le firme dei consiglieri uscenti dal notaio e che il costruttore, erede di una celebre dinastia imprenditoriale vicina alla sinistra, pare l’unico in grado di battere al ballottaggio la lanciatissima Raggi.

Non solo: a Renzi, a pensarci bene, un Marchini in Campidoglio andrebbe benissimo, in quanto un Marchini sconfitto potrebbe tornare molto utile, quando si tornerà alle urne, per federare il centrodestra (compreso l’NCD di Alfano) e puntare, con buone possibilità di vittoria, a Palazzo Chigi.

L’altro nome cui deve stare attento Renzi è quello di Stefano Parisi, in grado, come vedremo, di compiere il miracolo di riunire a Milano ciò che si è dissolto in mille pezzi in tutte le altre grandi città d’Italia. Tuttavia, di ciò che sta avvenendo nella città dell’Expo ce ne occuperemo nella puntata dedicata espressamente a Milano; tornando a Roma, l’unica certezza è, come detto, l’incertezza assoluta.

Nemmeno l’establishment culturale, per dire, stavolta sa a chi affidarsi: se un tempo Veltroni raccoglieva, da quelle parti, consensi unanimi, oggi di quel fervore e di quel senso di condivisione e di comunanza di idee e di vedute è rimasto poco o, per meglio dire, nulla.

Tutto tace, la stampa locale si schiera ma senza alcun entusiasmo, le vie si riempiono di manifesti ma assai meno delle volte precedenti, i partiti non esistono, i singoli candidati si mettono in evidenza e chiedono di essere presi sul serio, ben sapendo che non accadrà, i finanziatori di un tempo si guardano bene dall’esporsi e le lotte col coltello fra i denti delle passate tornate amministrative hanno ceduto il passo, ben che vada, a qualche scaramuccia di quartiere.

Roma è una città fragile, apparentemente ingovernabile, gravata da un debito immenso, da partecipate pubbliche moltiplicatesi a dismisura e da un sentimento generale di disgusto verso la politica.

Qui hanno fallito tutti, nessuno può dar lezioni né pretendere di essere credibile agli occhi dei cittadini. Si prevede un’astensione altissima e, per chiunque dovesse vincere, un calvario successivo che non augurerei nemmeno al peggior nemico.

Pasolini esortava a non piangere su una città coloniale (titolo di un bel saggio di Walter Tocci, dedicato alla politica romana degli ultimi vent’anni). Oggi più che mai, Roma appare sola, squassata e divorata dalle troppe lobby che ne hanno succhiato via l’anima, lasciandone il corpo esanime adagiato sulle proprie contraddizioni.

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