Disintegrazione culturale. Reinventarsi cattivo per essere ascoltato

ROMA – Ha un cappellino arancione piantato sulla testa. Sorride in continuazione. Muscoloso, sfrontato e ingenuo. Dice di aver ucciso venti persone.

E’ un rifugiato politico ospite di un’altra struttura. “Il mio Paese, la Costa d’Avorio, paga il vostro Paese per farmi stare qui. A questo punto vorrei tornare in Africa, ma non posso. Sono un ribelle”. Non crede nella politica, ma solo nel linguaggio dei soldi. “Credevo di poter trovare un lavoro, di poterne stare fuori, ma non è stato così. Ho girato l’Europa, l’Italia. Ho fatto scarico merci per pochi soldi, costretto a dormire per strada. Ho raccolto pomodori un giorno sì e tre no. Ora ho capito che di più per me non ce ne è. Non ho figli e non voglio una famiglia. Non credo in Dio e in nessuna ideologia. So come avere del denaro, devo fare la guerra. Quelli come me non hanno paura di niente, perché non hanno nulla da perdere”. Ha lasciato l’Islam una volta entrato in Italia: “Mi ero convertito al cattolicesimo, poi ho cambiato idea.

Le religioni sono tutte uguali, sono regole per controllare le persone. Se è per stare meglio lo capivo, ma nemmeno qui ho trovato l’uguaglianza, il benessere. Non ho fiducia di nessuno”. Ha combattuto in Costa D’Avorio in difesa della sua gente: “Sono Djoula, ero un perseguitato. Ora però se mi pagassero per combattere contro Alessaine -l’ultimo Presidente eletto, di etnia Djoula- lo farei senza problemi. Forse anche a diciassette anni, quando mi misero il fucile in mano, sotto sotto sapevo che non stavo facendo politica, che rischiavo la pelle per soldi e niente di più. Se avessi avuto una famiglia meno povera non avrei iniziato a combattere”. In Libia è stato mercenario: “Non mi fa schifo dire la verità. Io l’ho fatto perché avevo bisogno di lavorare. Dopo mesi in panetteria senza essere pagato, non mi sembrava vero. Ho ripreso il fucile in cambio di migliaia di euro. Ho ucciso nel mio Paese per difendermi, in Libia l’ho fatto su commissione. Non sono un terrorista, non sono pazzo. Ho vissuto nel terrore e in qualche modo l’ho alimentato. Credo che l’Africa sia anche questo. Un business delle pistole, o lo subisci o ne sei parte. I ragazzi che vengono qui non ne vogliono essere parte, sono delle vittime. Io mi ero illuso di potermene liberare, ma non ce l’ho fatta”. Si aspettava una seconda chance: “Non è stato così. In Italia ho vissuto una prigionia diversa. Non ho preso le botte che ti danno nelle carceri libiche. Non ho sentito dolore o subito torture come quando ero ostaggio dei militari ivoriani. Ho però visto spegnersi le luci sul mio futuro. Ho sentito l’indifferenza, il gelo. Ho trovato chiusa ogni porta e ho aspettato. Ho pensato come mai avevo fatto. Se per accettare una missione avevo bisogno di fumare marijuana ora ho bisogno di fumare marijuana per non riprendere il fucile in mano”. Gli chiedo se ucciderebbe una brava persona per soldi, mi risponde di sì. Se ucciderebbe me e mi dice di sì. Se ucciderebbe uno straniero in Italia, mi dice di no. Gli chiedo che costo ha oggi la vita di una persona: “Cinquemila euro, per meno non lo farei”. Gli chiedo cosa pensa di chi vuole restare in Italia: “Sono musulmani, credono nel prossimo. Non vogliono fare male alle altre persone, resteranno sempre poveri. Saranno sempre sfruttati. Credo sia meglio per voi averli nel vostro Paese, fanno comodo ai vostri padroni. Quando non hai più niente cosa devi fare? O fai l’elemosina o ti vendi.

Loro non si sono venduti e non vogliono nemmeno fare l’elemosina. Credono in Dio. Dicono che sia grande, ma poi? Aspettano i documenti, come se fossero oro”.  Gosha ha gli occhi spenti, ma un tono di voce ed una calata da rapper. Accompagna i suoi discorsi con movenze scordinate e ogni venti minuti dice: “Rientrato in Africa mi riprendo la pistola, Bum Bum” o “Avevo il fucile, tac tac”, “Ho usato la mitragliatrice, tatatatatata!”. Non ha studiato, conosce otto lingue: “So come funziona il mondo, ho la pelle dura”. Non ha paura della prigione: “Ci sono stato tante volte, basta pagare e si esce”. Dice che strapperà i suoi documenti e si farà passare per clandestino: “Non ci sto, è tutto un bluff! Me ne andrò in Mali, poi seguirò le rivolte, so già che giro faranno. Nei prossimi mesi andrò in Guinea, poi in Senegal, infine ritornerò in Costa D’Avorio”, Chi lo conosce dice che non è realmente così, che è stata l’Italia a cambiarlo. “Aveva dei soldi da parte, li ha spesi subito tutti.

Si è comprato un telefonino, un computer, delle scarpe da ginnastica. Usciva ogni sera. Ha iniziato a bere wisky. Poi a fumare sigarette. Prima non faceva nulla di tutto questo. Ha provato l’erba, poi l’eroina. Ora è completamente fuso, ma non farebbe male a una mosca. Siamo preoccupati. Se resta in Italia continuerà a convincersi di essere un terrorista, se rientra in Africa si andrà a fare ammazzare dopo pochi giorni”. Del nostro Paese dice che è appeso ad un filo: “Voi credete che qualcuno possa regalarvi i diritti, non è così. Avevate Berlusconi e ve lo siete fatti fuggire via. Pensate che chi ha i soldi è il male assoluto, invece è la vostra unica salvezza. Solo stando dalla sua stessa parte potreste convincerlo a darvene un po’ anche a voi. Ce ne vorrebbero di Berlusconi in Africa. Chissene frega degli scandali, serve il denaro. Io conosco la povertà, so cosa significa non poter mangiare. E’ per questo che non voglio figli”. L’amico gli ricorda di averne uno e lui si arrabbia: “Non voglio parlarne, quello fa parte di un altro Gosha, quello di una volta, quello che impaurito ha sbarcato a Lampedusa, quello che ha perso la memoria e che poi si è fatto forte”. L’amico affrema che l’unico modo per sentirsi forte, per proteggersi di fronte alle ingiustizie, alle attese e alle difficoltà incontrate in Italia è stato reiventarsi cattivo: “Cerca di spaventare tutti, lo fa per giustificare le sue disfatte. Per non essere osservato, giudicato. Preferisce inventarsi delle colpe e allontanare la gente al piangersi addosso e all’essere vittima del pregiudizio o ancora peggio dall’indifferenza”.

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