Ilva di Taranto. Una sfida per il Paese

ROMA – Le industrie non si chiudono, ma si trasformano rendendole amiche dell’ambiente, delle città e dei lavoratori. Sta in queste poche parole la sfida dell’ILVA di Taranto.  Si potrà  non essere d’accordo, ma non esistono  alternative. O meglio, l’alternativa è la chiusura  delle attività produttive con le conseguenze disastrose che ne conseguirebbero in termini sociali, ma anche ambientali e sanitari.

Su questo bisogna essere molto chiari e netti: è ingenuo o dice bugie chi sostiene che con la chiusura delle attività produttive si eliminerebbe l’inquinamento. Anzi, l’esperienza delle emergenze passate e quella più che decennale del Piano nazionale delle bonifiche insegna che la chiusura delle attività riduce e non aumenta le garanzie di risanamento. Un insegnamento di cui far tesoro sapendo anche che non semplifica i problemi e  richiede un di più di impegno da parte di tutte le parti sociali ed in particolare delle istituzioni pubbliche a tutti i livelli.

Di questo bisogna essere fermamente convinti sapendo che la sfida dell’ILVA si gioca a Taranto, ma vale per tutto il Paese. Non solo perché mette in gioco il destino di un settore, la siderurgia, strategico per economia dell’intero Paese, ma anche sullo specifico terreno del risanamento. Non dimentichiamo, infatti, che in Italia  sono più di 13.000 i siti industriali inquinati. Di questi  57 sono i  Siti di Interesse Nazionale (SIN). L’estensione territoriale dei soli SIN interessa 821.000 ha di aree di terra e 340.000 ha di aree di mare. Ben il 3% del territorio nazionale.  In queste aree si concentrano ancora segmenti strategici del sistema produttivo nazionale, dal chimico all’industria petrolifera, dall’energetico al siderurgico e ad essi sono interessati decine di migliaia di lavoratori e interi sistemi economici locali. Coinvolgono contesti ambientali, territoriali e urbani in moltissimi casi di valore eccezionale, sia sotto il profilo naturalistico che storico-culturale. 

Questa è la partita in gioco. Dal suo risultato non dipenderà solo il destino dell’ILVA di Taranto, ma anche di tante altre realtà produttive e urbane che presentano, chi più chi meno, gli stessi problemi. L’ILVA di Taranto, quindi, come una sorta di gigantesco laboratorio da seguire con la massima attenzione ed in cui avere il coraggio di  sperimentare soluzioni, assunte pubblicamente, dai cui risultati trarre insegnamenti da estendere alle altre realtà. 

Già dal modo in cui l’ILVA si è imposta all’attenzione nazionale deve essere considerato un primo, importantissimo, insegnamento, anche se non nuovo nella storia italiana. L’azione della Magistratura ha acceso un faro su una situazione insostenibile e da tempo denunciata, costringendo, finalmente, i decisori politici ad assumersi le loro responsabilità. Quale l’insegnamento trarne?  Che le istituzioni pubbliche non possono più essere indifferenti a come nel nostro Paese si è fatta e si fa impresa. Se la scelta straordinaria di commissariare l’ILVA è stata resa necessaria dell’incalzare della Magistratura, in tante altre realtà dove questo non avviene  i ritardi accumulati sono enormi malgrado le norme consentano i poteri sostitutivi. Su questo, allora, è necessario fare un passo avanti rendendo obbligatori i poteri sostitutivi, in presenza di gestioni che si dimostrano indifferenti all’impatto  ambientale e sanitario, non solo per la messa in sicurezza, ma anche per la bonifica. 

Un secondo campo di sperimentazione è  di carattere culturale. Il disastro dell’ILVA  è il risultato di una criminale cultura imprenditoriale che ha pensato, per non ridurre i margini di profitto, di scaricare nell’ambiente, incurante dell’impatto sulla salute di lavoratori e cittadini, tutte quelle  esternalità nocive, che potevano essere evitate con gli opportuni investimenti. Una cultura che deve essere battuta dimostrando che è possibile fare impresa ed essere competitivi avendo in cura l’ambiente ed i lavoratori innovando processi, prodotti, tecnologie, procedure di controllo: è questo l’unico modo corretto per risolvere il problema delle risorse che non può più continuare a gravare sulla collettività. Questo obiettivo deve essere assunto con chiarezza dalla struttura commissariale che ha in carico il destino dell’ILVA.

Un terzo campo di sperimentazione è il grado di coinvolgimento di lavoratori e cittadini. Questo è un punto di grande delicatezza in particolare in quelle realtà, come quella di Taranto, in cui gli imprenditori e spesso le istituzioni, hanno fatto di tutto per oscurare le effettive modalità in cui si svolgeva l’attività produttiva. E’ da qui che nasce la diffidenza, che in alcuni casi si traduce in esplicita conflittualità. Per questo è necessario che la struttura commissariale crei subito  sedi e canali di coinvolgimento dei cittadini e dei lavoratori sul processo di risanamento. 

Un quarto campo sono i tempi del risanamento. A più di 10 anni di vita del Piano nazionale delle bonifiche il bilancio è catastrofico. Qui si deve fare una operazione di realismo rimettendo rapidamente le mani sulla normativa che regola gli interventi di bonifica assumendo a riferimento quanto fatto dagli altri paesi europei.  I tempi per la realizzazione delle numerose azioni previste dipendono in larga misura  dai tempi di rilascio delle autorizzazioni. Senza dubbio c’è da ritenere che tutte le istituzioni responsabili, vista l’urgenza del risanamento, si faranno carico di agire con la massima efficienza.  E’ pur vero però che molto spesso le cause del ritardo sono contenute nella norma stessa. In particolare la normativa ambientale si caratterizza per un eccesso di “puntigliosità” che, per lo più, non si risolve in una maggiore tutela, ma produce il blocco delle decisioni, una sorta di “sindrome della firma” per evitare di incorrere in possibili reati. 

Infine un quinto campo è la responsabilità delle tecno strutture delle istituzioni coinvolte. Anche qui l’esperienza insegna che molto spesso ad ostacolare gli interventi di bonifica è una sorta di conflittualità interistituzionale che nei fatti, impedisce o rallenta l’espletamento delle procedure  necessarie al rilascio delle autorizzazioni. In particolare questo problema si pone nel funzionamento delle conferenza di servizio, strumento pensato per rendere più spedito il processo amministrativo. Nei fatti l’esperienza ha ampiamente dimostrato che se ogni amministrazione partecipa alle conferenze in modo saltuario, non istruito sull’oggetto in esame e comunque affermando in modo rigido  le proprie titolarità l’efficacia delle conferenze viene meno. E’ percorribile un modifica normativa che introduca criteri decisori della conferenza che ne garantiscano l’efficienza? 

Se da quanto si sta facendo all’ILVA sapremo trarre insegnamento per innovare in questi cinque campi, anche se ne esistono molti altri, potremo dire di aver fatto un vero passo avanti in favore del Paese e del nostro benessere.

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