Qualcosa di inutile per cui vale la pena vivere

Girarsi e non vedere l’orizzonte. Sentirsi soffocare da palazzi grigi e cemento. Un coperchio di modernità e ancora spaesamento. “E’ difficile vivere in Italia”, a dirlo sono i ragazzi, che in attesa dei loro documenti iniziano ad affacciarsi su Roma. Dalla folla in autobus alle risse dei nostri programmi televisivi.

Le urla dei loro coetanei e gli atteggiamenti snob degli adulti. Dopo tante derive e tanti approdi, come non spaventarsi di fronte al paese delle ipocrisie. I loro amici sono trattenuti sui barconi, loro lottano per non essere respinti. In stand by. Tra sguardi indiscreti, regole, sorveglianze e punizioni. Indici puntati alternati a tanta indifferenza. Sorrisi spenti e pochi bambini. Un Paese anziano, senza verde e con pochi animali. Fitto di non luoghi e di rumori. Dove possiamo ancora stare bene?

Ho contattato Marcello e abbiamo pensato al Maxxi. Noi due e i ragazzi dentro uno dei musei più affascinanti di Roma. Tra le opere contemporanee degli “artisti poveri” nostrani, la mostra sui movimenti pittorici indiani dell’ultimo secolo, le sculture concettuali e la grande architettura moderna. Un percorso in un luogo altro, dove è ancora possibile pensare. Godere di qualcosa. Soffermarsi su un colore, su un odore, su un suono, su una parola. “Sapete cosa è l’arte?”. Sidigo, che già una volta mi aveva ripreso perché gli avevo chiesto se nel suo paese c’era la pioggia, mi fa: “Sì, certo, è l’artigianato. Perché dovremmo non saperlo?”. Gli rispondo che il concetto d’arte in Occidente è leggermente diverso. Ci imbarchiamo in una discussione interessante quanto complicata. Zini chiede se tutti possono fare oggetti d’arte. Io semplifico spiegando che non tutto ciò che è fatto dall’uomo è arte e spiego che per l’Accademia gli artisti veri e propri sono pochi. Sono come i campioni nel calcio. I gregari e quelli bravini sono degli artigiani. Ma non basta, i ragazzi capiscono che di fronte non avranno dei Caravaggio, ma qualcos’altro. E allora: “Per voi qual è la differenza tra un opera d’arte e una maglietta lavorata a mano?” Io e Marcello: “La maglia serve a qualcosa, a coprirsi. I vasi servono per i fiori, i piatti per mangiare, l’opera d’arte non serve a niente. Se non a pensare, a stare bene.

 

Ci sono quadri che ti colpiscono e sono dunque opere d’arte, altri che non ti colpiscono e non sono opere d’arte. Detto questo le opere d’arte non hanno utilità pratiche evidenti”. Appena entrati i ragazzi sono invasi da un senso di leggerezza, come se camminassero sulle nuvole. Sono stupiti da ogni cosa e provano il piacere della scoperta. Assecondano le loro curiosità. Si muovono cercando le pareti, sbirciando oltre le cornici e non staccando gli occhi dalle tele. Ridono, volano via. Per un’ora sono lontano dalle sofferenze del passato e dalle ombre dell’oggi. Abitano le installazioni, occupano le sale del Museo. Lo fanno con i loro corpi, con le loro presenze. Incontriamo opere che accarezzano, opere che pungono e altre che ci/li rappresentano. C’è una scultura di un uomo che si porta sulle spalle una casa. “Come noi”. Ed io: “ Dopo un po’ che cammini deve essere pesante”. Milo prima sorride poi: “Alcuni dicono che ognuno deve stare nella propria casa nel proprio paese, invece è bello pensare che ognuno possa trovare una casa in ogni paese”. Alcuni cercano di eludere gli addetti alla sicurezza per registrare, rubare un ricordo, per loro avere una fotografia all’interno del Museo è molto importante. Vogliono inviarla ai loro amici. Di fronte ad un dipinto che ritrae una donna di spalle con un abito bianco e una corda come cinta, Sogoba rivede il rito funebre del suo villaggio in Guinea, con tenerezza ci racconta come viene restituito splendore al morto. Viene lavato, cosparso di profumi e vestito di bianco. Come se dovesse sposarsi. Viene festeggiato e sepolto. Poi ci chiede se è vero che noi mettiamo i morti nelle bare e poi nei muri e dice che gli dispiace per i nostri cari. Tra camion fatti di palline d’acciaio, vecchie macchine da scrivere colorate e barattoli di latta contenenti schermi al plasma, i ragazzi vivono bene, stanno bene. Una condizione che conosco, che spesso dimentico. Che cerco di continuo. Ed è così che una volta usciti dal museo, ne sentiamo già la nostalgia. “Possiamo tornare?”. Ed io “Dobbiamo”. Ho la piccola convinzione che i ragazzi abbiano capito di aver assaporato qualcosa di inutile, di insensato, ma di irrinunciabile. Qualcosa in più per cui valga la pena vivere.

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