Io non mi arrendo. Lettera aperta di una precaria ai suoi figli

Claudia Pepe è un’insegnante di musica vicentina. È precaria della scuola statale da vent’anni, praticamente da sempre.

Una vita dedicata alla musica la sua, mossa dalla dedizione tipica di chi è portatrice di conoscenza e che va oltre la semplice passione per questo campo: Claudia ama suonare, ama insegnare, ama trasmettere agli alunni la sua esperienza e i sentimenti che la musica sa donare.

Alle spalle ha una grande formazione, che poggia solide basi su due abilitazioni all’insegnamento, master e corsi di specializzazione. Come insegnante non ha mai rinunciato alla scuola statale, libera e laica, nonostante la sua situazione di madre precaria, come ce ne sono moltissime in Italia, l’abbia portata ad affrontare continui momenti di stop and go che fanno rabbia e generano sfiducia nei confronti del paese e delle istituzioni.

All’indomani della manifestazione indetta a Roma dall’Usb contro i tagli all’istruzione pubblica cui hanno partecipato migliaia di persone, Claudia scrive ai suoi due figli: è un messaggio di coraggio e di forza, dedicato più in generale a tutti i ragazzi italiani, profondamente scoraggiati ed amareggiati dalla situazione sociale vigente nel paese.

«Oggi non ci siete. Tutti e due siete ad incontrare la vostra vita, alle prese con un futuro da costruire e un bagaglio in più: una mamma che non smette di lottare. Tante volte mi chiedo se è giusto che mi vediate sempre così, assurdamente giovane e caparbia. Spesso troppo arrabbiata per essere la madre di due splendidi ragazzi. Non sono qui per chiedervi scusa ma, per spiegarvi perché avete una mamma che qualche volta pensa più alla scuola che a stirare bene le camicie o a rattoppare un buco nei vostri jeans o a infornare torte di mele. Essere precaria non è da tutti: ci vuole forza, ci vuole carattere, ci vuole il cuore gonfio di passione e di memoria.

Io non vi ho raccontato molte favole, sarà perché non ci credo. Sono così distaccate dalla nostra vita, che è invece piena di momenti tali da farci riempire album di ricordi senza dover attaccare fotografie. Non ho potuto accompagnarvi sempre a scuola o fare i compiti con voi, perché ero in un’altra scuola: sempre diversa. La mia vita non è mai stata tranquilla. Non sapevo mai se il giorno seguente avrei ritrovato i miei allievi, la mia musica, la mia cattedra le mie impronte sui quei banchi rotti e traballanti ma così cari che quando non li ho è come se non trovassi una parte della mia vita. Non vi ho potuto accompagnare a tutte le feste dei vostri compagni, ma vi ho accompagnato con gioie diverse a capire gli insegnanti, la scuola, la bellezza del ritrovarsi a parlare, a discutere, a suonare e sognare. Con una mamma precaria non si può dire dove si trascorrerà l’estate, perché vostra madre l’estate è una lavoratrice violata.

Violata come le donne: perché la scuola è donna. Grandi intellettuali hanno accomunato la scuola ad una massaia, la provvidenza per i figli, sempre. Essere precarie vuol dire essere violate e, come le donne, sedotte e abbandonate. La scuola è la prima ad essere derubata, sempre.

Essere precaria vuol dire non sapere mai se potrò aiutarvi nel vostro cammino, se i soldi basteranno, se i soldi arriveranno. Vi ho sempre accompagnato, e lo sapete, con quell’amore che sa delle nostre vite, delle giornate passate con tanto lavoro e poche carezze chiuse in un pugno di rabbia e di solitudine. Voi lo sapete, perché mi vedete tutte le mattine alzarmi all’alba piena di spartiti, di fotocopie, di dischi, di emozioni da dare. Emozioni che rendo vostre quando parlo delle mie giornate, di quello che è successo e di quello che vorrei che rimanesse nei ricordi dei miei studenti.

Essere precari vuol dire essere un numero in una graduatoria che cambia quando cambiano le persone, i loro interessi e i loro affari. Il precario è solo una pedina che si può spostare sulla scacchiera quando cambia il vento e che si deve aggrappare alla riva per non annegare.

Figli miei, sappiate che le leggi cambiano come cambia il vostro aspetto. Ieri eravate bimbi, oggi giovani uomini il cui il futuro non è certo. Tutti i giovani hanno avuto una grande problematica nella loro vita: se penso ai miei genitori penso alla guerra, ma poi subito alla resistenza e ai partigiani; se penso a me penso alla guerra ma non ad una pace. Se penso a voi, non penso. So però che avete le basi per essere migliori.

Miei adorati figli, oggi non ci siete e nella vostra mancanza, rispecchio il mio dolore e il mio rimpianto. Ma forse, essere precari oggi, è diventato un dovere. Il mio amore per voi e per il vostro esistere è la forza che mi accompagna ogni giorno nel difficile ma esaltante amore per la vita, per la scuola e per i miei studenti».

Condividi sui social

Articoli correlati