Cina. I “cento fiori” di Xi, tra apertura e repressione

ROMA – “Che cento fiori sboccino, che cento scuole di pensiero gareggino”. Con queste parole nel maggio 1956 Mao Zedong inaugurava una stagione di liberalizzazione culturale volta a cementare le relazioni tra Partito, intellighenzia e pancia del paese.

Riviste, pamphlet e dazibao si riempirono di critiche e consigli rivolti alla classe dirigente cinese, al tempo impegnata a prendere le distanze dal comunismo sovietico che proprio nello stesso periodo stava attraversando un processo di destalinizzazione promosso da Nikita Kruscev. La radicalizzazione delle proteste lasciò vita breve alla libera circolazione di idee trucidata nel 1957 con l’inizio dell Campagna Antidestra. Tutti coloro avevano seguito l’invito ad esprimere liberamente il proprio pensiero finirono vittima di una repressione violenta, che alcuni ancora stentano a riconoscere. Recentemente la smentita delle atrocità messe in atto durante la Rivoluzione Culturale da parte del vice-presidente dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, Li Shenming, non ha mancato di sollevare un vespaio di polemiche.

In questi giorni più che mai le parole del Grande Timoniere riecheggiano oltre la Muraglia. Una leadership schizofrenica trasmette messaggi contrastanti, invitando il popolo a dire la sua, per poi ingabbiare l’opinione pubblica che sulla rete trova la propria piattaforma di dialogo privilegiata.
A fornire l’occasione per una rinnovata cooperazione tra netizen e Partito il caso di Liu Tienan, vice-direttore della Commissione Nazionale per le Riforme e lo Sviluppo indagato per corruzione: primo funzionario a livello ministeriale a finire sotto scacco per una denuncia partita dal web. La soffiata era giunta alcuni mesi fa grazie a Luo Chanping, giornalista della rivista finanziaria Caijing, primo a rimestare nei torbidi affari di Liu sul Twitter cinese Weibo.

“Le autorità e il popolo hanno unito le proprie forze, e questo è un incoraggiamento per il potere pubblico nella lotta alla corruzione” si legge sul quotidiano statale Beijing News. Sullo stesso spartito l’agenzia di stampa governativa Xinhua rimarca come “il potere degli internauti cinesi si è dimostrato ancora una volta una forza anti-corruzione nel caso della rimozione dal proprio incarico di un importante decisore di politiche economiche, grazie alle indiscrezioni riportate da un giornalista su Internet.” Ma parafrasando le parole di Zhou Shuzhen, docente presso la Renmin University, la Xinhua non perde l’occasione per sottolineare come “il tracollo di Liu suggerisce che il Partito invita i netizen a partecipare alla campagna contro la corruzione in maniera razionale e in accordo con le leggi, denunciando i comportamenti illeciti dei funzionari utilizzando il proprio vero nome.” Una misura volta ad arginare la diffusione di voci infondate da parte di quanti minacciano la reputazione di “persone innocenti” nascondendosi dietro l’anonimato.

Proprio negli ultimi giorni i censori di Pechino hanno preso di mira i microblog di noti intellettuali e scrittori cinesi, manifestando la chiara intenzione di non voler concedere sconti a chiunque metta a rischio la stabilità e l’armonia sociale. Tra le vittime più autorevoli il professor He Bin, che si è visto chiudere il proprio account in quanto colpevole di aver “volutamente messo in giro rumors”. Alle accuse formalizzate sul sito del China Internet Network Information Center He ha controbattuto affermando che “è responsabilità di ogni cittadino promuovere un governo basato sullo Stato di diritto”

Soltanto lo scorso weekend era stata la volta dello scrittore Hao Qun (nome di penna di Murong Xuecun), che su Weibo vanta quattromilioni di seguaci, fatto sparire da quattro differenti siti di microblogging per poi essere parzialmente “riabilitato”. Per Murong la Cina starebbe attraversando un periodo di tensione paragonabile a quello vissuto alla vigilia della campagna di repressione maoista o delle proteste di piazza Tian’anmen, precedute da una vivacità di pensiero brevemente tollerata dalle autorità. “Come nel 1957, nel 1966 e nel 1989, gli intellettuali cinesi avvertono la stessa paura che si prova prima dell’arrivo di una tempesta di montagna” ha scritto in un saggio pubblicato mercoledì dal Guardian “noi non abbiamo paura di essere ridotti al silenzio o di finire in prigione; è piuttosto il senso di impotenza e di incertezza verso il futuro che ci terrorizza…è un po’ come camminare in un campo minato con gli occhi bendati”.

Ma c’è anche chi mette in guardia la leadership da un possibile effetto boomerang innescato dalla stretta sulla rete. Se Weibo viene imbavagliato e “la gente non potrà più comunicare su Internet, così si finirà per scambiarsi informazioni per strada. E se nessuno parla, allora si passerà all’azione” è il monito dello storico Zhang Lifan, convinto che il giro di vite sulla libertà di parola rifletta la profonda insicurezza che attanaglia il regime.

Un’insicurezza che negli ultimi tempi è sfociata in una psicosi che va ben oltre i confini informatici. Lunedì scorso alcuni avvocati per la difesa dei diritti umani sono stati picchiati da sconosciuti assalitori mentre tentavano di raggiungere uno dei centri di detenzioni illegale -detti anche “prigioni nere”- nella città di Ziyang, nel nord-ovest del Paese, mentre di recente, a Pechino e in altre città, alcuni attivisti sono stati presi in custodia mentre manifestavano per chiedere maggior trasparenza sulle ricchezze dei funzionari. Non è mai facile definire se dietro queste ritorsioni vi sia la mano del  governo centrale o piuttosto quella delle autorità locali, come sembrerebbero suggerire gli ultimi arresti nell’ambito delle detenzioni illegali di petizionisti. Sta di fatto che in tutta risposta martedì Pechino ha rilasciato il libro bianco sui progressi effettuati dal Dragone lo scorso anno nel campo dei diritti umani, ostentando una serie di vittorie nel campo della sanità, del welfare e degli standard di vita. La Cina ha assunto una serie di misure per “accrescere il diritto dei cittadini a sapere e a farsi ascoltare” si legge nel rapporto.

D’altra parte, le ultime manovre messe in atto dalla leadership cinese sembrerebbero rientrare in una campagna ideologica che lascia poche speranze a quanti avevano vagheggiato una virata in senso democratico da parte dei “nuovi imperatori”. Secondo quanto riportato dal South China Morning Post, la scorsa settimana alcune università sarebbero state invitate a glissare su argomenti ritenuti “potenzialmente pericolosi” come valori universali, diritti civili ed errori commessi dal Partito comunista cinese, in un’opera di pulizia che va a colpire principalmente le idee esportate dall’Occidente. Una tendenza già evidenziata il 16 aprile con l’annuncio dell’Amministrazione Generale per la Stampa, Pubblicazioni, Radio, Film e Televisione di nuove norme che vietano alle agenzie di stampa e ad altre organizzazioni di diffondere senza permesso notizie comparse sui media stranieri.

Come spiegato da Gao Yu, un decano del giornalismo, le voci circa una più ampia strategia ideologica adottata dalla nuova dirigenza sarebbero da ricollegare ad un incontro avvenuto (ma non reso noto) all’inizio di quest’anno ai vertici del Partito e incentrato proprio sui “sette problemi chiave” che i funzionari dovrebbero guardarsi bene dal trattare: democrazia, costituzionalismo, società civile, neoliberismo e stampa “con caratteristiche occidentali”. Le linee guida sarebbero apparse in un documento emesso dal Comitato Centrale del Partito e i cui contenuti sono filtrati per breve tempo sulla rete. “Il Partito sta attraversando diverse sfide, dall’inquinamento ambientale al divario di ricchezza, ma tutto questo segna un netto passo indietro. Chi avrebbe mai potuto credere che saremmo tornati all’epoca di Mao Zedong?” ha commentato Gao.

E’ un intreccio di segnali difficili da decifrare quello che trapela dalle segrete stanze di Zhongnanhai, il Cremlino cinese. Minxin Pei, professore di politica cinese presso il Claremont McKenna College vi scorge una volontà di soddisfare le richieste del popolo -che spinge per una più equa distribuzione del benessere e un governo più “pulito”- bilanciata dalla necessità di difendere la centralizzazione del potere e il sistema a partito unico.

Così se da una parte vengono lasciati ampi spiragli alla possibilità di riforme economiche e al “mercato come creatore di ricchezza sociale”, dall’altra viene soffocata qualsiasi spinta democratica. Almeno per come la intendiamo noi. Xi Jinping ha tenuto a farlo presente fin dallo scorso dicembre, quando nel suo viaggio al Sud ha rammentato gli errori commessi dall’Unione Sovietica, collassata a causa del lassismo ideologico del riformista Mikhail Gorbaciov. Concetto ripreso proprio la scorsa settimana in un discorso in cui ha predetto la morte del Partito comunusta cinese qualora venga rinnegata la figura di Mao, così come la condanna di Stalin è costata cara all’URSS, riporta il Guangming Daily.

Non è schizofrenia, piuttosto un delicato gioco di pesi e contrappesi quello messo in atto dal nuovo uomo forte di Pechino. Prima di avanzare qualsiasi liberalizzazione economica occorre rassicurare i propri potenziali avversari che la posizione del Partito non verrà minacciata. Ne è convinto Robert Lawrence Kuhn, uomo d’affari americano vicino ad alcuni alti funzionari e autore di una biografia di Jiang Zemin, il grande vecchio della politica cinese: “sono convinto che (Xi, ndr) pronunci alcuni discorsi al fine di consolidare la propria posizione, in modo da non subire attacchi dall’estrema sinistra. Le persone possono leggere in Xi quello che vogliono, perché egli dà modo ad ogni fazione di vedere ciò che desidera”.

Ma non passerà molto tempo che anche costituzionalismo e democrazia verranno presi seriamente in considerazione dalla leadership. Questa la posizione assunta da Ma Licheng, ex giornalista del Quotidiano del Popolo, secondo il quale un chiaro indizio ci viene fornito dai reiterati riferimenti della dirigenza allo Stato di diritto, primo passo verso qualsiasi forma di democrazia, come insegna il “modello Singapore”. “Il Partito ha spesso promesso di costruire un Paese altamente democratico” ha spiegato Ma in un’intervista comparsa su China File “ora è stato posto come termine ultimo il 2049. Ad ogni modo, è da intendersi positivamente il fatto che il Partito non etichetti più in maniera negativa il termine democrazia. All’estero alcune persone hanno perso la pazienza, ma io rimango cautamente ottimista”.

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