Libia, la guerra e i diritti dei popoli

Da settimane ormai arrivano ogni giorno notizie drammatiche dalla Libia. Come in un copione conosciuto si snoda il linguaggio ufficiale e quello ufficioso, si imbastisce l’informazione e la controinformazione, si rispolverano vecchi armamentari ideologici per giustificare un possibile intervento militare o condannarlo a priori come guerra imperialista. Mentre si discute di “no fly zone”, “no drive zone”, gli alti quadri della NATO iniziano a studiare piani,  le diplomazie si lanciano in febbrili consultazioni e tentativi.  Ci viene dapprima proposta la retorica umanitaria, i “genocidi”, i paralleli con il Kossovo o il Ruanda, le inesistenti fosse comuni, o bombardamenti a tappeto contro civili. Un battage necessario per predisporre l’opinione pubblica all’uso delle armi.

Quelli di Aavaz scatenano poi le loro truppe telematiche che inviano fino a 600mila email alle Nazioni Unite invocando l’imposizione della “no fly zone”. Mica uno scherzo, come ammette anche il Segretario alla Difesa Robert Gates, per imporla si devono bombardare le artiglierie antiaeree libiche. E poi  se si inizia con la “no fly zone” non si va dove si va a finire, molto probabilmente in un nuovo pantano afghano, semmai la “no fly zone” fosse mai stata intesa a proteggere i civili.  Forse questo agli ignari cyberattivisti non è dato sapere. Mentre la diplomazia internazionale, la stampa e l’opinione pubblica si cimentano con le drammatiche vicende libiche, in Costa d’Avorio si sta consumando un’altra guerra  – che ci interroga nuovamente sui dilemmi ed i rischi dell’intervento umanitario – e nella quale la Francia aveva già usato la forza militare (“raid mirati” inclusi).  E  proprio il presidente Sarkozy, dopo aver riconosciuto unilateralmente il governo provvisorio di Bengasi,  propone “raid mirati”. Dall’Eliseo si scaldano i muscoli nel tentativo di giocare , dopo il fallimento della  creatura del presidente francese – l’ Unione del Mediterraneo, il ruolo di playmaker nella regione, scavalcando la UE , i cui ministri degli esteri si stavano riunendo nelle stesse ore del suo annuncio  a Bruxelles. Questa dichiarazione, fatta parallelamente al riconoscimento del governo ribelle, di fatto sposta il baricentro dalla ipotetica difesa delle popolazioni civili, allo schieramento accanto ad una delle parti in conflitto in una guerra civile. Quella che viene venduta come ingerenza umanitaria si trasforma così in appoggio ad un cambio di regime, precludendo così ogni possibile ruolo di mediazione da parte di chi si schiera accanto ad una delle parti in guerra. 

In questo quadro confuso e convulso va comunque sottolineato che da più parti si nega la possibilità di intervenire senza l’avallo dell’ONU, ma nulla più. Eppure anche una think-tank non certo pacifista o “di sinistra” come l’International Crisis Group ha cambiato idea: non  propone più la “no fly zone”, ma chiede ora un cessate il fuoco bilaterale ed un negoziato internazionale. A parte la proposta di Chavez di mediazione internazionale,  quella del presidente delle Maldive di una forza di interposizione di caschi blu,  e l’adozione – con qualche annetto di troppo di ritardo – di sanzioni economiche ed embargo alle armi,  nessun altro passo è stato però fatto per evitare di dare come ultima istanza la parola alle armi.  Per questo è urgente  lanciare la proposta  di  una possibile soluzione pacifica e diplomatica, della quale potrebbero farsi carico  paesi delle due sponde mediterranee, con l’invio di una missione di mediatori indipendenti, l’ONU potrebbe attivarsi  attraverso una risoluzione del Consiglio di Sicurezza o direttamente attraverso l’Assemblea Generale, usando la risoluzione Uniting for Peace. Obiettivo quello di dare mandato alla mediazione internazionale e inviare un contingente di caschi blu per monitorare il cessate il fuoco, fornire assistenza umanitaria, indagare i crimini commessi nel conflitto, se necessario sotto protezione armata. Insomma piuttosto che cedere alla suggestione della forza, per sostenerne o meno l’uso,  sarebbe doveroso  impegnarsi a  discutere su come portare la pace in Libia attraverso il rispetto della legalità, del diritto internazionale, e la diplomazia. L’unica via possibile.

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