Israele. E’ morto Ariel Sharon. Un leader amato e odiato

TEL AVIV  – L’ex primo ministro israeliano Ariel Sharon è morto.  Le condizioni dell`ex premier israeliano, che aveva 85 anni ed era in coma dal 4 gennaio 2006 dopo essere stato colpito da un ictus, si erano aggravate nell’ultimo periodo a causa di problemi al fegato in seguito a un intervento chirurgico. Era ricoverato all’ospedale Sheba di Tel Hashomer, vicino Tel Aviv.

 

L’ospedale non ha confermato la notizia, mentre un portavoce ha annunciato un comunicato per le 14 ora italiana. «L’ex primo ministro si è spento all’età di 85 anni», ha scritto su Twitter un portavoce di Netanyahu, Ofir Gendelman.

Le condizioni di salute di Sharon, che non si era mai risvegliato dal coma, erano state giudicate «disperate» nell’ultimo bollettino sanitario diffuso ieri. «Arik» (diminutivo di Ariel) Sharon resterà nella storia come l’artefice dell’inviasione del Libano nel 1982 quando era ministro della Difesa, ma anche come il capo del governo di Israele che ha sgomberato truppe e coloni dalla Striscia di Gaza nel 2005.

 

Un leader amato e odiato

Amato, odiato ma protagonista indiscusso di una lunga stagione della vita politica israeliana e palestinese, Ariel («Arik») Sharon era nato a Kfar Malal il 27 febbraio del 1928 in quella che allora era la Palestina sotto mandato britannico. Prima di dedicarsi alla politica militò nell’esercito dello Stato di Israele per oltre 25 anni: si ritirò con il rango di generale. Vedovo e padre di due figli maschi, la sua è la vita di un combattente. Ad appena 14 anni si unì alla Haganah, l’organizzazione militare clandestina che mirava a creare un esercito ebraico indipendente fuori dal controllo britannico.

 

Nella guerra del 1948 seguita alla fondazione dello Stato d’Israele in Palestina, Sharon guidava una compagnia di fanteria; nel 1953 fondò e guidò il Commando Speciale 101, addetto ad operazioni di rappresaglia contro gli avversari arabi, una delle strutture militari più odiate nella storia dei rapporti fra arabi ed israeliani. Proseguì la carriera militare e nel 1956 partecipò all’offensiva nel Sinai condotta da Israele col sostegno di Gran Bretagna e Francia. Guidava una brigata dei paracadutisti ma incorse nella disapprovazione del capo dell’esercito Moshe Dayan e fu sospeso per motivi disciplinari.

 

Alla fine degli anni Cinquanta studiò in Gran Bretagna, al Camberley Staff College, poi prese una laurea in legge all’Università ebraica di Gerusalemme nel 1962 e si specializzò a Tel Aviv, mantenendo sempre i suoi impegni nell’esercito (divenne anche capo del dipartimento di addestramento).

 

Nel 1967 comandava una divisione corazzata nella Guerra dei Sei Giorni: lo Stato ebraico reagì alla crescente tensione attorno al Sinai e al Mar Rosso e allo schieramento dei soldati dei vicini arabi invadendo e conquistando sessantamila chilometri di Egitto più le alture del Golan, Gerusalemme Est, quelli che oggi sono noti come i Territori palestinesi. Nel 1969 fu nominato a capo dell’esercito del sud.

 

La sua vita racchiude tutte le chiavi della politica israeliana, prima fra tutti la predominanza della componente militare (un classico di molti grandi leader dello Stato ebraico, diversi dei quali furono capi di stato maggiore dell’esercito) e del conflitto con i vicini e nemici arabi. Politicamente conservatore, Sharon fu anche consigliere nel 1975 del primo ministro Yitzhak Rabin, membro del partito laburista. Nel 1972 aveva lasciato l’esercito ma era tornato in servizio attivo nel 1973 per la guerra dello Yom Kippur: guidò una divisione corazzata nel deserto del Sinai, operazione cruciale nella vittoria contro Egitto e Siria. Alla guerra fece seguito la pace separata fra Israele ed Egitto con la mediazione Usa e gli accordi di Camp David (1979).

 

Sempre nel 1973, Sharon era stato eletto per la prima volta deputato alla Knesset e fu fra i fondatori del nuovo partito conservatore, il Likud. Nel 1977 fu ministro dell’Agricoltura nel primo governo di Menachem Begin. Nel 1981 divenne ministro della Difesa e fu in questa funzione che affrontò la guerra in Libano e il periodo più controverso della sua carriera. Sharon fu in effetti architetto dell’operazione militare in Libano del 1982, motivata dall’accumulo di armi alla frontiera e dalla protezione che Beirut dava all’Olp di Yasser Arafat.

 

In agosto i guerriglieri di Arafat vennero scortati in Siria da una forza multinazionale; il 14 settembre venne ucciso il neoletto presidente libanese, il cristiano Bashir Gemayel; il

giorno dopo Israele comincò ad occupare Beirut ovest. Fra il 16 e il 17 settembre le forze falangiste libanesi entrarono nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila, abbandonandosi alla violenza; morirono forse duemila persone fra cui donne e bambini. L’esercito israeliano non intervenne; secondo alcuni storici in effetti sostenne il massacro. Sharon, per gli arabi il «macellaio», si dimise dopo che una commissione israeliana lo giudicò indirettamente responsabile.

 

La sua carriera politica però non subì gravi contraccolpi e da allora ha attraversato tutta la storia più recente di Israele. Dal 1984 al 1992 è stato molte volte al governo (fra cui nel ministero dell’Edilizia, che favorirà sotto la sua guida massicci insediamenti di coloni nei territori occupati palestinesi). Nel 1998 è agli Esteri con Benjamin Netanyahu.

 

Sono gli anni in cui la pace israelo-palestinese dopo gli accordi di Oslo si trascina; sono anche gli anni del grande sconvolgimento seguito all’assassinio da parte di un estremista

ebraico del primo ministro Rabin.

 

Nel settembre del 2000, Sharon torna alla ribalta delle cronache internazionali compiendo una passeggiata sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, epicentro delle tensioni nella città santa perché luogo sacro a entrambe le religioni. Un atto provocatorio che viene considerato il momento scatenante della Seconda Intifada palestinese (la prima è datata 1998).

 

Nel 2001 presenta la candidatura alle elezioni e ottiene il mandato degli elettori. È stato l’uomo che ha imposto il confino a Ramallah al nemico di sempre Yasser Arafat, bollato come sostenitore del terrorismo nell’Autorità nazionale palestinese, fino alla morte dell’anziano leader.

 

Poi la svolta: nell’estate del 2005 mette in atto, con il ritiro dell’esercito dalla Striscia di Gaza, una delle operazioni politiche e militari più controverse della storia di Israele. Da un lato osannata dalla comunità internazionale come prova che il ‘falcò era davvero sulla via della pace; dall’altra criticata dai palestinesi come un modo per sfuggire alla Road Map, il piano di pace internazionale che prevede la nascita di un vero Stato palestinese, e rafforzare invece le colonie in Cisgiordania. Opinione forse provocata anche dai rapporti non facili con il nuovo presidente dell’Anp Mahmoud Abbas (Abu Mazen).

 

Ma il ritiro da Gaza è criticato soprattutto in patria dall’ala più conservatrice e radicalmente religiosa del composito governo di Sharon. Tanto che molti ministri se ne vanno e il gabinetto si trasforma in un esecutivo di unità nazionale con i laburisti guidati da Shimon Peres, storico avversario. Il ritiro comporta lo sgombero forzato delle colonie di Gaza: le scene dei coloni trascinati via suscitano commozione in Israele.

 

Gli strascichi della calda estate 2005 non finiscono qui: a novembre Sharon, ormai 77enne, abbandona il Likud, poi fonda il partito Kadima («Futuro»), in cui confluiscono proprio Peres e tanti altri nomi del panorama israeliano. Il partito vincerà le elezioni anticipate del marzo 2006, dopo l’ictus che colpisce Sharon il 4 gennaio di quell’anno e lo fa precipitare in un coma che durava fino ad oggi.

 

In Israele le vere novità sono spesso arrivate dagli uomini forti di destra, ex eroi militari o delle milizie sioniste prima della fondazione dello Stato, forse perché sono gli unici

che, con un certo pragmatismo, hanno saputo guardare lontano e imporre le necessarie rinunce. Ma l’eredità di Sharon non è bastata a fare progressi sulla via della pace fra israeliani e palestinesi. Proprio nei giorni scorsi il segretario di Stato americano John Kerry era di nuovo in Medio oriente per cercare di dare una svolta a negoziati che appaiono sempre più in salita. Alla guida di Israele stavolta c’è Benjamin Netanyahu, un leader di destra come Sharon ma che finora non ha mostrato un coraggio paragonabile.

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