Capodanno di sangue nel Sichuan: almeno 3 i tibetani trucidati

PECHINO (corrispondente) – Sale il numero delle vittime rimaste uccise negli scontri che dal 24 gennaio vedono le forze di polizia cinese opporsi ai manifestanti di etnia tibetana con l’uso della forza; ma i conti non tornano.

Due i morti e 13 i feriti, come riportato ad inizio settimana dal gruppo Free Tibet, solo una la vittima, secondo l’agenzia di stampa governativa Xinhua, che ha precisato come l’uomo sia rimasto ucciso sotto gli spari della polizia, intervenuta dopo il ferimento di 14 agenti nell’assalto alla caserma della contea di Seda, nel Sichuan. Ma alcune associazioni per la difesa dei diritti umani avanzano numeri ben più elevati: e già si vocifera di sei decessi e 60 feriti.

Secondo il rapporto ufficiale rilasciato dalle autorità, l’assalto di lunedì sarebbe stato effettuato da facinorosi armati di bombe molotov, coltelli e pietre.

Ma il bilancio delle vittime accertate non si arresta. Nella giornata di giovedì un terzo manifestante è stato freddato dalle forze dell’ordine, come riferito questa mattina dal South China Morning Post. Urgen, 20 anni, è morto nella contea di Rangtang, mentre la polizia faceva fuoco sulla folla irata per la detenzione di un altro dei loro compagni.

Si tratta del terzo scontro mortale avvenuto nella parte occidentale del Sichuan, e la prima settimana di festa per il Nuovo Anno cinese si è tramutata in una settimana di sangue.

Intanto un funzionario di Rangtang, che ha preferito rimanere nell’anonimato, venerdì ha smentito l’esistenza di alcun movimento di protesta, come scrive AFP. “Non è conveniente parlare di quanto è successo” ha continuato l’uomo, “nessuno vi dirà nulla”.

Gli abitanti della zona si chiudono in un omertoso silenzio. Sedici i ristoranti e gli alberghi della contea che chiamati a fornire le loro testimonianze sugli accadimenti di Rangtang, si sono astenuti dal rilasciare dichiarazioni.

Intanto le aree tibetane sono state completamente sigillate dalle forze dell’ordine e per il quinto anno di fila, tra il 20 febbraio (data del Capodanno tibetano) e il 30 marzo (anniversario degli scontri del 2008) saranno rese irragiungibili.

Lo stato di isolamento a cui è stata sottoposta la contea rende la circolazione delle informazioni particolarmente difficoltosa. Alcuni inviati di AFP, che nel corso della settimana avevano tentato di raggiungere il luogo degli scontri, a più riprese sono stati respinti dalla polizia locale ma, secondo quanto dichiarato da International Campaign for Tibet (ICT) e da Tibetan Centre For Human Rights and Democracy (TCHRD), gli incidenti di Rangtang sarebbero stati fomentati da un giovane di nome Tarpa, il quale avrebbe diffuso una serie di volantini inneggianti alla liberazione del Tibet e al rimpatrio del Dalai Lama.

Le autorità hanno fatto irruzione nella casa del ragazzo, che nonostante l’intervento della folla, è stato portato via a forza. Le proteste della popolazione locale sono state messe a tacere dai colpi della polizia.

Epicentro delle rivolte di questi ultimi giorni- le più violente dal sanguinoso 2008- è ancora una volta il Sichuan occidentale, provincia caratterizzata da una forte presenza tibetana. L’attacco alla caserma di polizia si inserisce nel movimento di protesta attraverso il quale il popolo tibetano ha espresso la volontà di astenersi dai festeggiamenti per il Capodanno cinese, dallo scorso 23 gennaio in corso nel Regno di Mezzo.

Ancora addolorata dalla lunga serie di auto-immolazioni che nei passati mesi hanno scosso la regione (almeno 17 i monaci ad aver scelto la morte tra le fiamme in segno di protesta contro il governo cinese) , la popolazione locale tibetana “ha colto l’occasione per esprimere il proprio risentimento per le ingiustizie di cui continua ad essere vittima sotto la dominazione cinese” ha spiegato Tenzin Dorjee, direttore esecutivo di Students for a Free Tibet.

Repressione religiosa, mancanza di libertà e un’identità culturale progressivamente erosa dalla supremazia dell’etnia Han: queste alcune delle principali scintille ad aver innescato i focolai di rivolta nella regione del Sichuan, così come nella “terra dei Lama”.

Secondo le proiezioni di alcuni esperti, la strategia di Pechino punta, entro un decennio, ad effettuare un ribaltamento demografico nella regione autonoma del Tibet,  innescando il vantaggio numerico dell’etnia Han su quella tibetana, destinata così a diventare sempre più una minoranza.

Questa settimana, circa 185 gruppi in difesa del Tibet hanno emesso un comunicato di denuncia contro il giro di vite attuato dal governo cinese nei confronti dell’etnia tibetana, volto a richiedere un “intervento congiunto della comunità internazionale” contro il Dragone.

Una situazione disperata da attribuire alla linea dura utilizzata per decenni dal governo comunista cinese: “La propaganda di Pechino maschera bene ciò che nei fatti non è altro che una campagna di distruzione nei confronti del nostro popolo e della nostra cultura, spinta da ambizioni coloniali”. Un genocidio al quale il popolo tibetano ha cercato di reagire attraverso dimostrazioni pacifiche, senza tuttavia sortire alcun effetto.

Sulla scia dell’ondata di auto-immolazioni, il 10 settembre scorso l’ufficio di pubblica sicurezza della prefettura di Ngaba (Sichuan) ha condannato tre monaci a scontare 3 anni di lavori forzati nei famigerati lager cinesi. La tradizione vuole che ogni anno all’inizio di settembre la comunità religiosa di Kirti celebri 15 giorni di festività, ma quest’anno solo pochi membri hanno fatto ritorno al monastero, mentre Pechino ha sguinzagliato nella zona un vasto numero di agenti per procedere con la “campagna di rieducazione patriottica”. Ma le autorità cinesi non si fermano davanti a nulla, e non hanno esitato nemmeno a sfoderare l’arma della corruzione: 20mila yuan e un prestito di 50mila il compenso promesso a coloro che si allontaneranno volontariamente dal monastero per “cominciare una nuova vita”.

Lo scorso 23 gennaio il portavoce del ministero degli Esteri, Hong Lei, è tornato ad accusare le potenze straniere di strumentalizzare la questione tibetana per mettere in cattiva luce il Partito: “I tentativi di gruppi secessionisti con base all’estero di usare il Tibet per distorcere la verità e gettare discredito sul governo non avranno alcun successo”, ha dichiarato Hong

La questione tibetana rappresenta una ferita ancora aperta per la leadership del Regno di Mezzo dagli accadimenti del 1959, data della grande rivolta anticinese nonché dell’inizio dell’esilio indiano del Dalai Lama. In seguito gli attriti tra Pechino e il popolo del Tibet sono degenerati in un’escalation di eventi culminata nei sanguinosi scontri dell’aprile 2008.

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