Il ritorno di Xi Jinping negli Usa

PECHINO (corrispondente) – La trasferta del vicepresidente Xijinping negli Stati Uniti fa parlare la stampa internazionale.

Soltanto ieri il secondo uomo di Pechino è atterrato a Washington, dopo 27 anni di assenza, per dare il via al tour diplomatico che lo vedrà impegnato in una sette giorni di incontri con i più alti esponenti della politica americana: Barack Obama (prima tappa avvenuta nella serata di ieri), il segretario di Stato Hillary Clinton, il vicepresidente Joe Bidene e il segretario alla Difesa Leon Panetta.

Molte e scottanti le tematiche in agenda dalla “storia infinita” dell’apprezzamento dello yuan e della squilibrio della bilancia commerciale, alla questione nordcoreana, passando per la Siria e l’Iran sino ad arrivare ai contenziosi che agitano le acque del Pacifico.

Quest’ultimo punto, in particolare, sembra essere diventato particolarmente sensibile dopo le affermazione di novembre della Clinton secondo la quale il “Ventunesimo secolo sarebbe il secolo del Pacifico”. Se si fanno le proiezioni sulle percentuali di spesa militare da qui ai prossimi dieci anni, prevedendo un aumento del 10% della spesa militare in Cina (come avvenuto negli ultimi due anni) e rapportando queste spese a quelle U.S.A., ferme intorno al 3% annuo, entro il 2015 il Dragone potrebbe arrivare ad utilizzare il 75% del budget della difesa. Semplici misure precauzionali a giudicare dalla dichiarazione rilasciata pochi giorni fa al Washington Post dal presidente Hu Jintao: “Nell’Oceano Pacifico c’è sufficiente spazio per la Cina e per gli Usa, e non bisogna dimenticare che ciò che preoccupa maggiormente i Paesi asiatici è il benessere economico. In un periodo in cui si cerca soprattutto pace, stabilità e sviluppo, dare deliberatamente priorità all’agenda della sicurezza e aumentare la presenza militare non è affatto ciò a cui le nazioni della regione sperano di assistere”.

La stoccata di Hu non è casuale: proprio alla fine di gennaio gli Usa hanno ampliato gli accordi di assistenza Usa-Corea del Sud in una nuova formula che prevede la risposta congiunta di forze armate americane e sudcoreane in caso di provocazioni da parte di Pyongyang. In altre parole Washington potrebbe trovarsi coinvolta in caso di provocazioni o aggressioni quali quelle dell’affondamento della corvetta Cheonan o del bombardamento delle isole Yeonpyeong. Ma l’accordo con Seul non è che un assaggio del nuovo documento strategico firmato Obama in cima alla lista del quale svetta la questione Asia-Pacifico, con tutte le implicazioni del caso tanto economiche che politiche.

Quanto potrà servire a calmare le acque tra le due sponde la visita del politico cinese più in vista del momento? Più che semplice vicepresidente, Xi è con ogni probabilità colui che impugnerà le redini del Paese più popoloso del mondo a partire dal marzo 2013, quando il passaggio delle consegne, la cui celebrazione si terrà in concomitanza del XVIII Congresso Nazionale del Popolo, verrà finalmente ufficializzato. E tutti gli occhi sono già da tempo puntati su di lui che, primo tra i “principini rossi” e figlio di Xi Zhongxun -vecchia gloria del comunismo cinese, epurato/riabilitato e militante nell’ala più riformista ai tempi del massacro di Tiananmen- si troverà ad ereditare un Cina scossa dalle rivolte popolari, ferita dalle zampate dell’inflazione, sull’orlo dello scoppio della bolla immobiliare e per nulla immune alle ripercusssioni che la crisi dell’Eurozona sta esportando all’estero.

Per quanto riguarda i rapporti sino-statunitensi, anche se Xi non ha ancora indossato il cappello da cow-boy come fece a suo tempo Deng Xiaoping, dall’altra parte dell’Oceano viene comunque ritenuto il “più western” tra i leader cinesi. Sarà per quella parentesi metà anni ’80, quando ancora nel pieno del suo cursus honorum, si recò in Iowa dove strinse legami d’amicizia con la popolazione locale. Quella prima esperienza americana il futuro Grande Timoniere sembra non averla mai dimenticata, e giovedì tornerà in quella città che lo ospitò anni orsono.

“Ho pensato fosse un bell’uomo e molto educato” ha raccontato alla BBC Eleanor Dvorchak che ospitò Xi durante il suo soggiorno a Muscatine, Iowa. “Al tempo un bel giovane, oggi un bell’uomo di mezza età” scherza la donna.

Le premesse per una politica distensiva ci sarebbero tutte, ma a Zhongnanhai non la pensano esattamento così e proprio questa mattina un editoriale pubblicato dal Global Times, megafono del Partito comunista cinese, richiamava agli ordini il suo uomo mettendolo in guardia dalle insidie in agguato. “La Cina non ha bisogno di soddisfare l’Occidente a discapito dei propri interessi” scrive il quotidiano noto per le sue tendenze nazionaliste. “Bisogna pensare a quali sono le relazioni migliori, senza contare se siano sino-europee o sino-americane; più sono in accordo con gli interessi del nostro Paese e meglio è. Europa e Stati Uniti sono importanti per la Cina, ma per prima cosa la Cina deve pensare a sé stessa. Questo non vuol dire che deve mantenere un atteggiamento arrogante, ma piuttosto deve assicurarsi di ricevere un trattamento paritario dagli altri Stati attraverso la diplomazia”.

E ancora una volta i riferimenti più o meno espliciti vanno a toccare la questione del veto posto da Cina e Russia riguardo alla risoluzione dell’Onu contro il regime di Assade. Una mossa, quella del Dragone, che ha suscitato lo sdegno di tutto l’Occidente. Per quanto riguarda il versante iraniano, l’appoggio del gigante asiatico alle sanzioni rappresenta un primo passo avanti, ma Obama continua ad auspicare una rottura definitiva tra Theran e Pechino anche nei rapporti commerciali ed energetici. Una richiesta, quella del presidente Usa, che il Dragone “affamato di energia” difficilmente accontenterà.

“Non vogliamo assistere a uno sviluppo del programma nucleare iraniano. Abbiamo votato per le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, tuttavia abbiamo delle riserve sulle sanzioni unilaterali. Ma questo non è una novità” ha dichiarato Xi Jinping, confermando che i rapporti commerciali con l’Iran non verranno intaccati.

Ma a calare l’imbarazzo sulla Casa Bianca non solo le dubbie relazioni tra il Dragone e alcuni partner discutibili: il giro di vite messo in atto da Pechino nei confronti dei dissidenti -fattosi negli ultimi tempi ancora più serrato- sommato alle autoimmolazioni a catena dei tibetani rappresenta un punto dolente sul quale Washington non può proprio chiudere un occhio; nemmeno per assicurarsi rapporti di “buon partenariato”. E la notizia del visto negato a Susan Jhonson Cooks, diplomatico statunitense in lotta per la libertà di religione, non ha fatto che alzare la tensione. L’8 febbraio la donna sarebbe dovuta sbarcare nella Repubblica Popolare per vedere alcuni funzonari del governo cinese, ma per qualche ragione non ancora chiara in Cina, Susan, non è mai potuta arrivare.

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