Reportage Brasil: São Paulo. Appunti di viaggio non immaginario (1/4)

La megalopoli mi accoglie dentro al suo caos come il mare una goccia di pioggia.
Ne divento parte silenziosamente.
Volendo o non volendo divengo divenire, movimento.

Movimento di un essere circoscritto in uno spazio smisurato.
Movimento sincrono ad altri movimenti.
Quello incessante e lineare delle auto, quello intermittente dello sciame degli individui, quello casuale dei suoni e dei rumori, quello improvviso dei colori, quello dei pensieri che vanno e vengono; come le auto, gli individui, i suoni, i rumori, i colori…

La megalo-polis che mi inghiotte e diluisce nel suo fluire, è la metafora tangibile della contemporaneità, emblema dell’attuale. Modello di come sarà (anzi già è) il tempo che verrà per un’umanità costretta a vivere in spazi concentrati, alle prese con la propria crescita, con una possibile e plausibile convivenza, con schemi di violenza tollerabili, con la necessità di risorse sufficienti per tutti, genericamente identificate in lavoro, cibo e sicurezza.
Una sfida ciclopica e a tratti utopistica, che riguarda la sopravvivenza stessa della specie antropica nel ristretto e inospitale spazio urbano.

La selva oscura è qui una distesa di palazzi e grattacieli che sembrano esser stati gettati dall’alto da una divinità impazzita. Il cielo sopra essi stagna grigiastro e a tratti si apre alla luce del sole. Spesso, specie la sera, inizia a cadere una piacevole o fastidiosa (a seconda di come si è trascorsa la giornata) pioggia leggera (a garoa) che immediatamente avvolge tutto e tutti, tentando di pulire le innumerevoli lordure, in qualche maniera accumulate, nel corso delle ore.

La meraviglia che si prova è la medesima che nei miti doveva provare l’umano alle prese con il gigante. Lo smisurato e l’invisibile. La vicinanza -fisica- al cielo e la lontananza dal proprio cuore.
La bellezza e la ferocia. Sorisos e abraços, urla e violenza.
Gli estremi convivono uno accanto all’altro, uno dentro l’altro o meglio sono la cosa stessa.
Eraclito ne sarebbe stato felice. E questo perpetuo divenire, alimenta senza sosta il pulviscolo degli esseri che ne fanno parte e che rendono possibile il costante accadere, in un gioco senza fine.

Mi viene da pensare alla quantità quotidiana di energia di cui ha bisogno il gigante per funzionare, ai fiumi di acqua che entrano ed escono senza sosta dalle sue membra sparse. Alle tonnellate di cibo prodotte e consumate continuamente. Alla teoria di camion che vi transita ininterrotta, alla smisurata quantità di merci che lo riempiono all’inverosimile. Cerco di immaginarne l’immenso sistema venoso fatto di tubature, cavi, fili, pali e qualsiasi altra cosa serva ancora per trasportare atomi da una parte all’altra.
Lo smisurato apparato digestivo, le fogne e tutto quanto altro occorra per smaltire.
Miriadi di connessioni, miliardi di impulsi, bisogni e necessità che si incrociano e si sovrappongono divenendo indefinite.
E tutto ciò, incredibile a dirsi, sembra funzionare alla perfezione.
Illogico [come la nostra maniera di vivere e sopravvivere] ma incredibilmente efficace.
Al di là del logico, forse solo bio-logico.

Il gigante consuma energia di ogni tipo ma produce una quantità impressionante di ricchezza. Motore economico, polmone finanziario e locomotiva, sono i sinonimi qui più ricorrenti. Banche, imprese, industrie, fondi internazionali, capitali di ogni tipo si aggregano e allontanano come fossero espressioni frattali.
Il paese in via di sviluppo, del quale la megalopoli è simbolo economico, si è finalmente sviluppato, è cresciuto e ha iniziato a correre.
Noi vecchi del vecchio continente, piantati sulle nostre panchine, non possiamo fare altro che osservare sorridenti il bambino correre sempre più veloce. Tra un attimo lo perderemo di vista…

Le dimensioni quindi.
Dalle quali discendono svariate ossessioni.
Ho provato a decifrarne qualcuna tra quelle più immediatamente tattili, alla portata di tutti.
In primis il traffico.
E non è un caso. Se le dimensioni del gigante non sono state pianificate e sono state lasciate al caso, anzi sono addirittura in costante aumento, senza un adeguato e capillare piano di mobilità, tutti gli individui (innumeri) sono costretti a muoversi con l’auto. Parlare di automobile, qui come in tutti gli analoghi conglomerati del pianeta, sembra eccessivo, in quanto viene a decadere continuamente la seconda parte del sostantivo, il “mobile” ovvero il movimento previsto dal mezzo. Il movimento, infatti, si depriva o meglio degenera dal suo status, rallentando per causa di banali leggi fisiche, fino ad arrestarsi.
Movimento continuamente alle prese con atomi incomprimibili, che intasano vie delimitate nel loro spazio.
Un nota pittoresca. Tutte le tv al mattino trasmettono “live” immagini commentate d’ingorghi e sembrano mettere in guardia chi sta per uscire. Alla sera le stesse televisioni ritrasmettono le stesse immagini – sempre in tempo reale – dell’inferno urbano, una scia interminabile di luci rosse che contrastano nella corsia opposta, un fiume di fanali bianchi.
Traffico impressionista più che impressionante. Matisse e Van Gogh ne sarebbero stati raffinati interpreti.

Traffico e il rodizios (letteralmente lo spiedo che gira) ovvero le targhe alterne. In pratica un giorno a settimana, dipendendo dalla targa, si lascia il proprio veicolo a riposare. Un piccolo palliativo per far fluire il flusso. In pratica un singhiozzo…

Traffico come limitazione oggettiva della propria libertà.

Traffico come ineliminabile rumore di fondo della città.

Di contro, accoppiato al moto, c’è l’altra piccola-grande ossessione degli abitanti della megalopoli ed è anch’essa legata all’auto, vale a dire quando essa stessa si ferma; il parcheggio.
Dappertutto carissimo, sembra rappresentare più una punizione per essersi arrestati che il giusto prezzo per una necessità. Eppure tutti rispettano le regole (o si rassegnano alle stesse, altra caratteristica generale degli abitanti del paese intero).
Nessuno si azzarda, come da noi, a lasciare la macchina in doppia fila o dove capita. Le punizioni sono severissime e naturalmente vengono applicate. Di contro si fa di tutto per evitarle. Come? Semplicemente rispettando i divieti.

Qui è talmente importante, anzi considerato vitale, possedere un’auto che in realtà si finisce per esserne posseduti.
Le offerte degli affitti o della compra-vendita delle case mettono al primo posto, prima ancora della descrizione dell’appartamento, l’esistenza o meno di un posto auto. Se non c’è, il bene perde drasticamente valore e l’espressione contrita dell’agente immobiliare con il quale stai parlando, sembra quasi partecipare di un lutto.

Dopo il traffico, il lavoro.
Lavoro che produce beni e che crea accesso ai beni. Lavoro inevitabile, minuzioso e capillare che a tratti sembra assumere il ruolo di punizione.
Lavoro come doppia pelle e necessità per tenere in piedi tutto il bailamme.
Lavoro che qualifica la città come il centro più importante dell’America Latina, cuore europeo e sguardo americano.
Lavoro che deve essere intenso, preciso e rapido., quindi frenesia nei ritmi e capillarità. Da queste parti il mito stesso del lavoro spazza via uno dei luoghi comuni più tipici del Brasile, l’indolenza e la pigrizia (tratti tipici del Nord Est, bahiani e paraibani in testa, a detta dei paulisti).
Alla fine proprio attraverso l’ossessione del lavoro, si finisce per pensare che il Brasile non sia São Paulo e São Paulo non sia il Brasile.
Sembra infatti di vivere in un’atipica Città-Stato sospesa nel tempo e nello spazio…

La città sembra un immenso alveare che rallenta il suo ritmo solo per qualche ora durante la notte, quando diverse api operaie iniziano il loro turno per far sì che tutto rimanga a disposizione e funzionante. Immaginereste che accanto al gigante ne viva un altro, notturno e insonne, in tutto simile al primo, che rimane sveglio per garantire i sogni di chi, da lì a poco inizierà di nuovo la danza? Immaginereste, accanto ai tradizionali mestieri della notte, un avvocato che inizia a lavorare a mezzanotte insieme al dentista che apre il suo studio solo con il buio, accanto all’agenzia di pubblicità e alla palestra per nottambuli?

Lavoro quindi e naturalmente consumo. Quindi i prezzi, gli oggetti, le necessità e gli emblemi.
Una corsa sempre più rapida a spendere. Un caotico perdersi dentro vetrine e promesse.
Qui, più che in altre parti del mondo prese dalla medesima frenesia, si fa di tutto per non sembrare poveri.

I prezzi.
Perché in Brasile è tutto così caro?
Sono andato a documentarmi.
Tra il 2003 e il 2007 il PIL mondiale è cresciuto in media del 5% l’anno con la Cina arrivata fino al 14%. In questo periodo si può rintracciare l’esplosione dell’economia brasiliana che ha iniziato a vendere materie prime al resto del mondo. Ferro, petrolio, soia, etanolo, alimenti, triplicando l’indice delle proprie esportazioni.
In questi anni 40 milioni di brasiliani sono usciti dalla povertà e sono entrati nella cosiddetta classe C. Altri 9 sono saliti nella B e nella A. Il motore delle esportazioni ha messo in moto l’economia. Il primo effetto è stato naturalmente l’accesso ai consumi, l’apertura del credito bancario e come per una sorta di reazione chimica, i prezzi hanno iniziato a salire.
Prima di tutto quelli degli immobili. São Paulo e Rio, che non hanno più fisicamente spazio per costruire, registrano aumenti del 40-50% circa l’anno, divenendo tra le città con le case più care al mondo.
Ma cerchiamo di capire il perché dei prezzi così alti.
Si dice che imprenditori e governo spendano poco per migliorare i mezzi di produzione e che non investano nel processo globale. Appena fanno i soldi corrono a comprare gli emblemi del loro successo: auto di lusso, attico in zone residenziali, abiti italiani, club esclusivi etc.
Si dice che di norma quanto meno sviluppato sia un paese, più deve spendere negli investimenti. Nei paesi emergenti la media è il 31%, nel Brasile il 19%.
Questo si riflette sul costo dei trasporto delle merci che avviene solo su gomma (pochissime le ferrovie, solo 29,8 mila km in confronto ai 226 mila negli Usa). A tal proposito un economista brasiliano afferma che la logistica è ancora del 19° secolo.
Un altro effetto sono gli alti costi dell’energia e del denaro prestato dalle banche alle imprese e ai privati.
Capitolo tasse. Sono tantissime, tutte insieme gravano sul prezzo finale del prodotto e finiscono per sommarsi alle inefficienze strutturali di cui sopra.
Un esempio; un cellulare Galaxy a Miami costa 650 reais, a São Paulo 2048, vale a dire le tasse incidono per il 7% negli Usa sul prodotto, a fronte del 40% in Brasile.
Alla fine ci si assuefa a uno standard di prezzo fuori mercato e 100.000 reais per un’auto di lusso sono considerati accettabili.
Ma sembra che i prezzi alti abbiano una grande forza attrattiva e ai brasiliani piace spendere e ostentare; fa molto status.
Inoltre chi vende, sentendosi assediato da tasse e balzelli, sia in entrata (tasse importazione) e sia in uscita, balzelli (tasse statali), pensa bene di aumentare comunque il proprio lucro.
In compenso si consuma molto e si risparmia pochissimo. Il 27% contro il 39% dell’America Latina. Risultato: il 41% dei brasiliani è indebitato. “Non abbiamo mai avuto tanto credito e per mancanza di educazione finanziaria si pensa -mi danno i soldi, li spendo- in verità c’è anche una ragione-possiamo dire psicologica- negli anni post-dittatura (1983) l’inflazione era talmente alta che la logica imponeva di spendere il più possibile prima che i soldi perdessero di valore, i prezzi nei supermercati venivano corretti a mano durante il giorno…” nota un giornalista economico.
Altra causa la burocrazia, una delle più cavillose e lente al mondo nonché la corruzione (vi ricorda qualcosa?).
Il carico fiscale delle imprese sul lavoro è del 57,5% (in Italia siamo al 51,8, in Francia al 42,7, negli Usa 8,8 e in Inghilterra all’8,2).
Inoltre gli interessi sui capitali di giro in Brasile sono al 19%, in Cina al 3,7.
Frullando tutti questi dati e mettendo in fila indiana i numeri, alla fine si arriva a un costo della vita davvero ragguardevole e ai famosi prezzi fuori standard di mercato. Ma nessuno, al momento, pare farci caso. Li si rincorre ossessivamente e chi non può permetterseli (i molti) rimane paziente fuori dalle vetrine a guardare e a immaginare le prossime parcelas (rate) attraverso le quali realizzare il sogno…

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