Crisi sistemica: cosa non fare e cosa fare

ROMA – I drammatici sviluppi intorno alla sostenibilità dei debiti sovrani, alla tenuta dell’euro e al futuro dell’Ue hanno scatenato un tale turbinio di proposte e presunte soluzioni da creare più confusioni che certezze.

Poiché la crisi è sistemica, occorre riflettere pacatamente sulle politiche economiche e finanziarie che i governi e le altre istituzioni preposte dovrebbero mettere in cantiere. Sarebbe opportuno vedere prima di tutto quello che non dovrebbe essere fatto.

A nostro avviso anzitutto non bisogna immettere ulteriore liquidità per salvare le banche o comprare titoli di stato. Invece questa è purtroppo la politica delle Fed. Recentemente poi si è scatenata una grande campagna per indurre la Bce a fare altrettanto. Con il fondo dell’European Financial Stability Facility e gli acquisti di titoli di stato direttamente da parte della Bce si arriva ad una disponibilità effettiva di circa 700 miliardi di euro. Per il salvataggio della Grecia, dell’Irlanda e del Portogallo potrebbero bastare, ma non sarebbero sufficienti per affrontare una possibile crisi spagnola. Oggi il mondo della finanza internazionale, a cominciare da quella americana, richiede con forza che la Bce porti la sua offerta di liquidità a 2.000 miliardi di euro! Proseguire su questa strada prima o poi porterebbe inevitabilmente una fiammata di inflazione.

Non bisogna tagliare indiscriminatamente i bilanci, in particolare le spese sociali e gli investimenti degli stati, per abbattere il debito pubblico e rientrare nei parametri di Maastricht. Il debito pubblico dell’Ue raggiungerà circa 9.300 miliardi di euro alla fine del 2010, pari in media al 78% del Pil europeo. Per riportare il debito pubblico sotto il livello del 60% del Pil occorrerebbe eliminare 2.150 miliardi di debito. E’ impossibile nel breve o nel medio periodo. Se lo si volesse fare in 10 anni ciò comporterebbe un taglio annuo di circa 200 miliardi. Oltre ad una ovvia incapacità di tenuta sociale, ciò provocherebbe una deflazione e una recessione con delle conseguenze reali molto più gravi di quelle finora prodotte dalla crisi bancaria e finanziaria.

Non bisogna fare le cartolarizzazioni, vendere cioè il patrimonio pubblico per far cassa e abbattere in parte il debito pubblico. L’esperienza, anche in Italia, ci insegna che, alla fine, queste operazioni impoveriscono soltanto lo stato che poi si trova privo di patrimoni con valori reali. Sarebbe un party per i finanzieri e speculatori che metterebbero in campo titoli e anche valori fittizi nella prospettiva di scambiarli con i “gioielli di stato”. E l’effetto sul debito pubblico sarebbe comunque irrisorio.

Non bisogna provocare una “inflazione controllata” per svalutare i debiti degli stati. Sono proposte che da tempo girano nel mondo della finanza anglosassone e sembrano aver attecchito anche nell’ufficio del presidente della Fed, Ben Bernanke. La storia europea ci insegna che è facile provocare l’inflazione ma è impossibile poi controllarla e spegnerne i focolai.

Non bisogna svalutare le monete in modo competitivo pensando di favorire le esportazioni e quindi l’aumento della produzione interna e del Pil e in tal modo diminuire il debito pubblico. Né sarebbero utili nuove barriere doganali, di cui alcuni parlano, per contenere le importazioni. Ciò porterebbe ad una devastante guerra commerciale globale.

Non bisogna credere che i titoli tossici o i rischi sui bond di stato si possono scongiurare  accendendo polizze di assicurazione come i Cds. Se i titoli sono senza valore, un’assicurazione sul rischio può apparentemente garantire chi li possiede, ma non risolve la crisi sistemica. Nel 2010 i Cds sui titoli sovrani europei sono aumentati del 37,3% raggiungendo un totale di 661, 7 miliardi di dollari, facendo guadagnare 40 miliardi di dollari in commissioni alle grandi banche internazionali. Un bell’affare!

Non bisogna abbandonare gli accordi monetari ed economici regionali, in Europa in particolare, né ipotizzare due o più Ue a differenti velocità, né un euro del nord e uno del sud. Queste teorie, promosse dai sostenitori del sistema del “dollar for ever” contro ogni forma di accordo unitario europeo, sembrano attecchire anche nel Vecchio Continente. Si vorrebbe far dimenticare che la maggior parte degli scambi commerciali dei paesi europei sono fatti proprio all’interno dell’Europa. Il Pil tedesco, per esempio, per più del 40% è frutto delle esportazioni, di cui più della metà riguarda gli altri paesi europei.

Al contrario molte sono le cose che si dovrebbero fare all’interno di una riforma globale delle finanza e delle regole economiche. Due prima di tutto.

Bisogna rilanciare l’economia reale attraverso una politica di grandi investimenti nelle infrastrutture e nell’innovazione tecnologica. Occorre ritornare a progettare gli investimenti a lungo termine. Gli eurobond per lo sviluppo possono essere dei validi mezzi, così come i nuovi strumenti finanziari pubblici-privati di lungo periodo quali quelli promossi dal Long Term Investors Club delle Casse Depositi e Presiti europee. In altre parole, l’aumento della ricchezza prodotta e più equamente distribuita è l’unica vera base per abbattere il debito pubblico e per mantenere la stabilità sociale.

Bisogna chiamare in campo il curatore fallimentare con il “compito biblico” di separare il grano dalla gramigna, cioè il credito dalla speculazione e dai titoli tossici. Sostenere il primo e abbattere i secondi con regole più stringenti, con tasse e con altri sbarramenti contro la loro proliferazione.

Tutto ciò presuppone un contestuale e forte impegno degli stati ad eliminare gli sprechi e a contrastare l’evasione fiscale, il lavoro nero e l’economia sommersa.

*Sottosegretario all’Economia nel governo Prodi ** Economista

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