Intervista a Mauro Palma, il primo garante nazionale dei detenuti

“L’organizzazione carceraria va ripensata un’ottica di sistema su come riorganizzare le risorse”

ROMA – Il professor Mauro Palma, oltre ad aver conseguito la Laurea in Matematica, ha ottenuto quella in Giurisprudenza honoris causa per le sue competenze nel campo della giustizia e dei diritti umani. Da sempre impegnato nella tutela dei diritti dei detenuti ed esperto in giustizia penale, è stato più volte rieletto Presidente del “Comitato europeo per la prevenzione della tortura” del Consiglio dell’Europa.  Ad oggi, con la sua nomina a Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, arriva a compimento l’istituzione di una importante funzione di garanzia dell’area della privazione della libertà personale, prevista dalla legge n. 10 del 2014. 

D: Professore, Lei è il primo a ricoprire questo ruolo a livello nazionale. Come intende sviluppare il coordinamento a livello territoriale per superare le problematiche che si profilano? 

R: A livello territoriale dobbiamo tener presente che vi sono realtà eterogenee: alcune regioni hanno già istituito un proprio garante, altre lo hanno istituito ma non nominato e altre ancora non lo hanno neppure istituito. Quindi, il primo compito del mio ufficio sarà quello di ricoprire il territorio nazionale, coordinando ciò che già esiste e facendo in modo da supplire il garante nelle regioni ove questi non sia operativo o sia manchevole. Dal punto di vista tematico, invece, ci sono urgenze diverse: il carcere sicuramente è un punto centrale della nostra attività, ma bisogna tener presente che esistono associazioni di volontariato che vi operano efficacemente. Il punto nevralgico oggi sono le CIE (centri di identificazione ed espulsione) dove c’è molta meno trasparenza e molta meno gente che entra. Quindi, tematicamente, è necessaria una grande attenzione alla questione degli immigrati.

In Europa il compito di verificare le condizioni di detenzione durante il processo di esecuzione dell’arresto spetta al difensore, è una soluzione migliore rispetto a quella italiana? Dato che il difensore è colui che è più a stretto contatto con l’imputato? È auspicabile che venga adottata anche nel nostro ordinamento?

Dunque, questo è un problema degli stati membri dell’U.E, perché invece dentro l’Unione e specificamente nel  Consiglio d’Europa, c’è già un organismo del tutto simmetrico alla figura del nostro garante, il “Comitato europeo per la prevenzione della tortura”, che ha 

I suoi stessi poteri di monitoraggio, la stessa possibilità di visitare i luoghi senza annunciare, cosa molto utile per trovare i luoghi dove si annidano le criticità o gli ambienti dove c’è una cultura interna che può evolvere in violenza. Questo è un aspetto molto importante e costituisce il compito di sistema del garante, che in tal modo può guardare complessivamente quali sono le situazioni a rischio di maltrattamento. Sui casi dei singoli Stati membri è vero, esiste la necessità di allinearsi con la figura del difensore, ma è un compito che esula da quelli del garante, che deve invece intervenire sulle criticità in generale.

Sono noti i casi di violenza su imputati e detenuti perpetrati dalle forze di polizia. Spesso è difficile far venire a galla la verità, pensiamo ai casi Cucchi e Aldrovandi. Come si può assicurare che tali eventi non si verifichino più? In effetti il rispetto della legge dovrebbe essere assicurato proprio dalle forze dell’ordine.

Puntualizziamo che questi casi, rispetto al grande lavoro che le forze dell’ordine svolgono, non sono numerosi, certo è che non devono assolutamente accadere. Il vero problema ,ad ogni modo, è che questi sono casi che rimangono impuniti. Da un lato c’è un problema di prevenzione e, giustamente, il compito del garante sarà quello di prevenire. Questo lo si farà attraverso visite a sorpresa, indagini, volte a capire sia quali siano le regole che vengono date agli operatori, sia quale sia la loro formazione. Tenendo presente che l’effetto preventivo più incisivo si ha perseguendo penalmente questi reati. Perché se i loro autori non ne non rispondono, o perché passa il tempo, o perché  non c’è reato, e addirittura fanno carriera, non c’è formazione che tenga.

L’Italia è stata più volte sanzionata dall’Unione per il mancato rispetto delle condizioni di vivibilità delle carceri. Ai problemi strutturali, tuttavia, si cerca di ovviare senza affrontare direttamente quello del sovraffollamento: ad esempio vengono aggirati i parametri sugli spazi delle celle semplicemente aprendo le porte di queste e permettendo ai detenuti di trattenersi nei corridoi. In termini economici, quante risorse bisognerebbe stanziare per mettersi in linea con gli standard europei? 

Le risorse ci sono, ma bisogna spenderle bene. Se si considera quanto l’Italia spende per ogni singolo detenuto si è nella fascia medio alta. Questo significa che i soldi vengono spesi male. Purtroppo, infatti, molte risorse confluiscono in progetti e progettini che non cambiano il sistema. Il problema non è il quantum delle risorse, ma di come queste vengono spese. Quindi uno dei compiti del garante sarà quello di ridefinire i bilanci e di dare indicazione sulle risorse. In parte è giusto rimediarne altre, però, ripeto, il problema non è la carenza di risorse ma lo spreco di queste.

Quindi, in concreto, quali provvedimenti intende adottare?  

Per esempio spostare in termini di bilancio le spese che si hanno complessivamente. Le risorse vengono assorbite dal fatto di avere tantissimi istituti, molti dei quali anche piccolissimi, che mantenere è costosissimo. Quindi, in primis, disporre istituti medio grandi.  Pensiamo al fatto che a volte si hanno direttori anche solo per venti, venticinque detenuti, che prendono uno stipendio pari a quello di un direttore che ne  ha invece mille. È  chiaro che un sistema tale si deve razionalizzare, e lo si farà attraverso un ridimensionamento: imponendo un direttore ogni cento detenuti o aggregando più istituti.

Questo è un primo criterio. Un altro è fare molto più ricorso alle tecnologie. Le tecnologie possono essere usate sia per facilitare la vita dei detenuti, si pensi ad un collegamento Skype con i figli , ma anche per altre situazioni, ad esempio la telemedicina. Con la telemedicina si può, per alcune analisi, fare un prelievo direttamente in istituto con personale infermieristico e averne telematicamente i risultati, risparmiando in questo modo sugli accompagnamenti, le cosiddette traduzioni, costose ed umilianti: portare un detenuto in ospedale è cosa degradante per la persona che viene condotta in manette ad attendere tra la gente. Quindi, in definitiva, va ripensata un’ottica di sistema su come riorganizzare le risorse.

Oltre a problemi strutturali, ci si deve occupare della tutela dello sviluppo della personalità dei detenuti: la pena, come sappiamo, non è retributiva, il suo fine è il reinserimento della persona nella società.  Il nostro ordinamento in che modo garantisce i diritti all’istruzione, formazione professionale, cultura, sport, socializzazione e rapporti con le famiglie e salute che la legge riconosce?

Dal punto di vista normativo questi diritti vengono garantiti, le norme ci sono. Dal punto di vista applicativo il discorso è un altro. Se viene tutelata l’istruzione di un detenuto, e poi non si concede la possibilità di trasferimento in un’altra città per seguire un corso di studi, allora di fatto questo diritto non lo si è tutelato. Quindi si deve agire più sul piano amministrativo che su quello normativo, sull’applicazione in concreto.

In linea con quest’ottica applicativa, la direttiva 48/2013 tutela soggetti vulnerabili di cui l’Unione Europea si occupa in modo più incisivo dell’Italia. A 3 anni dal suo recepimento, a che punto siamo nell’attuazione?

Dunque, dobbiamo fare una distinzione tra due tipi di minori: se si parla di minori autori di reato l’Italia è all’avanguardia, nel senso che siamo uno dei paesi europei con il numero più basso di minori detenuti: ce ne sono meno di 300, mentre il resto è alloggiato in comunità, case famiglie o centri di recupero. Quindi da questo punto di vista bisogna continuare sulla stessa linea. Se si pensa invece ai minori intesi come figli dei detenuti, si è molto arretrati. Solo ultimamente si è cominciato ad avere la possibilità delle visite anche la domenica o il pomeriggio, cose banali ma importanti, perché, se il minore va a scuola e non gli viene fornita la possibilità di visitare il genitore di pomeriggio o di domenica, di fatto non si sta permettendo la relazione affettiva. È necessario poi intrattenere i minori quando vanno in visita, disporre assistenza psicologica per aiutarli a misurarsi con il carcere. In definitiva, diciamo che la questione del minore ha due aspetti: minore inteso come autore di reato, dove l’Italia ha un sistema efficiente, e minore inteso come parente, dove troviamo un sistema da implementare.

Alcuni minori poi vivono in carcere fino a 3 anni con le madri…

Si, sono bambini che da 0 a 3 anni restano con la madre in carcere. In questo caso sono fiducioso che in tempi non lunghi la situazione si risolva, andando rapidamente verso le case famiglia. Attualmente, i bambini che non sono negli Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) ma si trovano in carcere, sono 19, un numero esiguo, se si pensa che a Roma si potrebbe aprire una casa famiglia che ne ospiterà sette. Va da sé che questo numero andrà restringendosi ancora di più in futuro.

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