Primo Levi e l’Olocausto dell’Europa

Benché il trentesimo anniversario della scomparsa di Primo Levi ricorra il prossimo 11 aprile, riteniamo che non ci sia data migliore del 27 gennaio per celebrare la figura di questo straordinario scrittore, testimone diretto di quell’abisso di disperazione e morte che fu Auschwitz.

Primo Levi e il suo grido affidato alla letteratura, Primo Levi e il suo genio che trovò nella scrittura la propria sublimazione, Primo Levi e quegli interrogativi sul senso della vita e sull’essenza stessa dell’uomo, Primo Levi che si interroga e conficca i propri dubbi nel nostro animo, Primo Levi che ci esorta a non dimenticare, a riflettere e a restare in silenzio al cospetto di un’aberrazione che solo chi l’ha vissuta sulla propria pelle può comprendere fino in fondo e che nessuno ha il diritto di far cadere nell’oblio. Primo Levi, infine, che non resse al dolore e alla disperazione per un male sottile, silenzioso e sempre presente dentro di sé, il male delle atrocità viste con i propri occhi, quel male che ti segna, ti rimane dentro e che anche a tanti anni di distanza gela ogni attesa e ogni speranza, proprio come le notti trascorse su una tavola di legno, accanto a un povero Cristo che, a sua volta, cercava invano di sentirsi ancora un uomo, di aggrapparsi al miraggio di un domani, di resistere a quell’inferno per poi arrendersi, il più delle volte, a condizioni di vita disumane, a un’esistenza sfregiata, devastata, segnata per sempre da un’esperienza impossibile da accettare nel suo orrore e nella sua crudeltà gratuita. 

Primo Levi che se ne va, suicida, lasciando un vuoto incolmabile non solo nella nostra narrativa ma anche nel nostro immaginario, nel nostro comune sentire, nel nostro vano scandagliare le miserie dell’animo umano alla ricerca di ragioni impossibili da trovare, di motivazioni talmente irrazionali da scadere nel baratro della follia omicida, di tracce di memoria che rimangono impresse negli occhi di chiunque abbia avuto modo di visitare un qualunque campo di sterminio o anche solo un luogo di tortura, in qualunque paese del mondo, essendo purtroppo l’Olocausto una vergogna comune a parecchi popoli e avendo ciascuno di essi molti punti in comune. 

Per questo mi domando spesso cosa avrebbe detto Levi se si fosse trovato di fronte agli Olocausti contemporanei, se avesse visto le stragi e le guerre civili in Africa e in Medio Oriente ma, più che mai, se si fosse trovato di fronte le immagini di un nutrito gruppo di poveri cristi accalcati alle porte dell’Europa, fermati dai fili spinati, dai muri e dalle frontiere chiuse oppure costretti a viaggiare in vagoni piombati, come avviene ad esempio nell’Ungheria di Viktor Orbán; mi domando spesso come avrebbe reagito questo straordinario testimone del tempo, probabilmente ucciso dalla sua stessa difesa strenua della memoria e dei suoi valori, se oggi si fosse trovato davanti degli uomini e delle donne che muoiono, a loro volta, per un sì o per un no, che camminano nel fango e i cui piedi si distruggono in percorsi della speranza, con scarpe spesso inadeguate, al gelo di temperature che raggiungono, talvolta, i venti gradi sotto zero.

Perché quando ho visto i migranti ammassati alla frontiera di Belgrado, lì ho visto Auschwitz in tutta la sua potenza distruttiva, con tutto il suo carico di morte e annientamento degli esseri umani. 

Quando ho visto i migranti respinti con ferocia alle porte della Spagna, lì ho visto l’odio che percorre e divora l’Occidente: per nulla dissimile, purtroppo, da quello che si scatenò negli anni Trenta nei confronti degli ebrei, con annessa giustificazione dell’ingiustificabile, in nome di una falsa sicurezza che altro non è che un’illusione di protezione xenofoba ed effimera. 

E quando leggo i racconti e le testimonianze dei migranti che muoiono nei campi bruciati dal sole del nostro Meridione, lì vedo la fatica, lo strazio e l’impossibilità di vivere, ben descritta anche dalle baracche in cui i caporali li costringono a dormire e dalle docce di fortuna in cui sono obbligati a lavarsi, con conseguente diffusione di malattie e devastazione di fisici pure robusti. 

Senza dimenticare i discorsi di certi leader politici, le loro campagne elettorali squallide e i loro slogan che riecheggiano quello, atroce, che campeggiava sui manifesti tedeschi ai tempi del nazismo: “Ci sono cinque milioni di disoccupati e cinque milioni di ebrei di troppo”; ebbene, quando metto insieme tutti questi elementi, acquisisco la certezza che il nazismo è di nuovo fra noi. Ed è inutile negarlo, è inutile trovargli altri nomi, è inutile edulcorare i termini e indorare le pillole amare o, peggio ancora, affidarsi alla scempiaggine autoconsolatoria e banale che il mondo da allora è radicalmente cambiato, in quanto le vicende che ho appena elencato sono altrettante forme di nazismo, di volontà di sterminio, di pervicace sfida al concetto stesso di umanità, di tentativo di sottomettere interi popoli e di farli sentire inferiori, di utilizzare coloro che si considerano diversi, dunque estranei, alla stregua di schiavi, di privarli di qualunque diritto e di qualunque dignità. Mi spiace, ma questo si chiama nazismo, e sarà bene vederlo, denunciarlo e combatterlo prima che dilaghi in ogni angolo del Vecchio Continente. 

Chiamarlo col proprio nome, infatti, può essere utilissimo, in quanto è più facile che si drizzino le antenne di coloro che si illudono che quest’Europa malata e in preda al disincanto, alla stanchezza e alla mancanza di prospettive e di utopie, oltretutto costretta a fare i conti con la megalomania razzista del nuovo inquilino della Casa Bianca, sia al riparo da pericolosi rigurgiti di barbarie.

Personalmente, vedo il nazismo nei toni, nei modi, nei comportamenti e nelle scelte di alcuni dei personaggi che potrebbero trovarsi, a breve, alla guida di importanti nazioni; vedo il nazismo nel discredito cui sono sottoposte continuamente la politica e le istituzioni; lo vedo in una certa faciloneria cialtrona; lo vedo nel populismo dilagante che porta a fare campagna elettorale sulla pelle dei più deboli e di coloro che non si possono difendere; lo vedo nella negazione dei più elementari diritti, nelle aggressioni ai danni degli zingari, nell’idea di lasciar morire di fame e di sete un continente dopo averlo depredato per secoli, rifiutandosi di accoglierne le risorse migliori; lo vedo pressoché ovunque e lo chiamo col proprio nome. 

E quest’Olocausto morale, alla base di alcune scioccanti tornate elettorali cui abbiamo assistito nei mesi scorsi, ci induce a riflettere anche sul fatto che pure Mussolini e  Hitler, per seppellire le rispettive democrazie ormai suicidatesi, si affidarono a “libere” elezioni, vincendole alla grande e facendo poi strame di ogni forma di opposizione. Potrebbe succedere ancora. La democrazia, come insegnava Bobbio, o è inquieta o non è, o la si difende con forza ogni giorno o, a lungo andare, deperisce. 

Per questo, oggi più che mai, penso a Primo Levi e a ciò che potrebbe dire e scrivere in questa drammatica stagione.

Per questo ne avverto tremendamente la mancanza. 

Per questo, in occasione del trentesimo anniversario della sua scomparsa, ritengo doveroso dedicargli questa Giornata della memoria, riflettendo attentamente sugli orrori contemporanei. 

Perché purtroppo la storia tende ciclicamente a ripetersi, solo che non lo vogliamo ammettere, per pudore o per incoscienza, e quando ce ne accorgiamo, ormai, è troppo tardi.

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