Movimento del ‘77 e caso Moro, una storia da riscoprire

Tornano libri e mostre sugli anni di piombo, un periodo collettivamente rimosso 

“Chi c’è dietro le brigate rosse?” A porre la domanda all’amico americano è chi scrive, allora redattore dell’agenzia Ansa: gli era successo più volte di rispondere ai telefoni che intorno alle otto di sera squillavano sui tavoli della cronaca, dall’altra parte del filo una “voce maschile senza inflessioni dialettali”, come si sarebbe scritto nei verbali della Digos, scandiva perentoria: “Qui brigate rosse. Il comunicato numero 8 è nel cestino dei rifiuti accanto alla fontana di Trevi”. “Dietro le brigate rosse? Ci sono…le brigate rosse!”. A dare l’anodina risposta è un americano, funzionario dell’ambasciata di via Veneto, ufficiale di collegamento fra le nostre forze di polizia e l’intelligence statunitense. Leggi Cia. Ma poi si è visto che le cose non erano andate proprio così. Era il 1977, il cuore degli anni di piombo. Per averlo vissuto e ricordare, oggi si deve avere almeno sessant’anni.Chi è più giovane non può far altro che documentarsi sui libri, sui servizi televisivi, sui film dedicati a quella stagione italiana. Non è facile perché su quel periodo della storia recente dell’Italia repubblicana si può dire sia sceso fino ad oggi un velo di silenzio. ”E’ stata una vera e propria guerra civile” ha scritto più volte Giampaolo Pansa, giornalista e scrittore carico di anni e di livore. Ma anche chi non tira quest’amara conclusione ammette che sono stati anni difficili, sui quali pochi hanno scritto.Oggi si comincia a parlarne. A Roma si è appena aperta una mostra proprio sul ’77. 

Perché il ’77?  Non è solo l’anniversario dei 40 anni tondi a riesumare un momento chiave di quel periodo funesto.  Davvero quell’anno fu uno snodo importante dell’Italia politica, che oggi si può leggere con maggiore lucidità. Prova ne sia Il segreto, il romanzo di Antonio Ferrari che la casa editrice Chiarelettere ha pubblicato colmando un ritardo di trentasei anni. Tanti, infatti, ne sono passati da quando l’autore, firma di spicco del Corriere della Sera, ci lavorò convinto che sarebbe stato pubblicato a tamburo battente, come un istant-book, appena trascorso il 1978, l’anno del sequestro Moro. Ferrari, allora un intraprendente cronista, aveva seguito giorno per giorno l’agguato di via Fani il 16 marzo con il massacro degli uomini della scorta e dopo 55 giorni l’assassinio del presidente della Democrazia Cristiana. Tre anni dopo, sedimentata nella mente l’atroce esperienza, aveva scritto in un libro quello che gli era saltato agli occhi durante tutta la tragica vicenda: e cioè che all’agguato di via Fani non erano stati estranei uomini dei servizi segreti di paesi stranieri. Chi meglio di lui, un bravo giornalista che aveva seguito l’intera vicenda scrivendone per il primo quotidiano italiano, avrebbe potuto tirare quelle conclusioni e sia pure in forma di romanzo far risultare quanto la storiografia corrente aveva sempre nascosto? Ebbene, il libro esce soltanto oggi, dopo che per anni più di un editore l’ha letto e l’ha rifiutato. E’ curioso che siano dovuti passare quasi quarant’anni perché il racconto, sia pure romanzato, del caso Moro arrivasse in libreria. Evidentemente, nei decenni scorsi, un libro così faceva ancora paura. Nel risvolto di copertina l’editore di oggi precisa: ”Ferrari scrisse quello che sapeva ma che non poteva essere detto mancando tutte le prove”.  L’autore conclude: ”I giovani che in quegli anni non c’erano scopriranno che cos’era l’Italia di allora, il terrorismo, la rabbia di chi si sentiva escluso, le aspre battaglie politiche, le maldicenze, la paura. Gli altri troveranno qualche riposta alle tante domande che già allora c’eravamo posti”.

Avrà successo presso il grosso pubblico un libro che esce con quasi quarant’anni di ritardo? Noi glielo auguriamo, anche perché abbiamo già assistito a casi analoghi. Bruna Alasia, allora studentessa alla Sapienza, ha dedicato un romanzo-testimonianza sul 1977: “Tre anni così” pubblicato durante il sequestro Moro e passato sotto silenzio, oggi è conservato nella biblioteca telematica di Harvard e altre università americane, a disposizione di studenti interessati alla storia recente dell’Italia repubblicana. A dimostrazione che il ‘77 e tutto quello che ne seguì è stato un anno chiave ed è ancora tutto da riscoprire.

La mostra aperta in questi giorni a Roma ne dà forse una lettura di parte.  S’intitola “Sangue e poesia” e vuole essere un ritratto del 1977 attraverso le opere di Tano D’Amico e Pablo  Echaurren, due artisti che per la loro storia personale, politica e artistica hanno segnato la creatività sviluppata all’interno del movimento del ’77. Alle duecento opere esposte si aggiunge l’uscita di un libro “Il piombo e le rose – Utopia e creatività del movimento”.  Puntualizza il curatore della mostra Gabriele Agostini: “Il ’77 è stato un grande concerto polifonico del mondo reale, ricordo dei senza voce, degli ultimi di sempre. Un movimento scomodo, pericoloso e devastante per gli aspetti del potere”.

D’accordo che sono passati quarant’anni e la polvere dell’oblio comincia a coprire le cose. Ma ci riesce difficile trovare qualcosa di poetico in tutto quel sangue versato in nome della “lotta all’imperialismo delle multinazionali”. E’ questo che predicavano le brigate rosse che, come puntualmente ricorda Antonio Ferrari in quello che è tutt’altro che un romanzo, sparavano alla gente e telefonavano all’Ansa. Ferrari non l’ha scritto ma l’ha accennato: quando il brigatista ha tardato a telefonare ai giornali ed era stato preceduto dalla notizia del suo attentato, ha fatto agli occhi dei suoi una brutta figura. All’ennesima telefonata “Qui brigate rosse. Scrivi…”, i telefoni nella redazione di cronaca dell’Ansa suonavano tutti insieme, chi scrive risponde di getto: ”Aspetta un momento. Sto lavorando”.  Il brigatista piccato replica: ”Anch’io sto lavorando. Scrivi, il comunicato…”. Tanto sangue e poca poesia.

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