Egitto. Piazza Tahrir due anni dopo

ROMA – Ci auguriamo di non essere gli unici a non aver esultato affatto di fronte alle immagini provenienti da piazza Tahrir al Cairo. E se non abbiamo esultato è perché due anni dopo, svanite le utopie e le illusioni, siamo diventati tristemente, e a tratti un po’ cinicamente, realisti.

All’epoca, era il 2011, fummo infatti tra i principali sostenitori delle manifestazioni che condussero, in poche settimane, alla destituzione di Mubarak e alla fine di un potere radicato e oramai trentennale; eravamo nel bel mezzo delle “primavere arabe” e il colpo inferto a un tiranno che opprimeva il suo popolo da tre decenni ci sembrò un fatto davvero rivoluzionario.
Due anni dopo, però, quando quella stessa piazza è tornata a riempirsi per chiedere le dimissioni di Mohammad Morsi, leader dei Fratelli Musulmani, democraticamente eletto alla guida del Paese il 24 giugno 2012. Ci siamo posti alcune domande. Innanzi tutto ci siamo chiesti come sia possibile che un popolo che aspira alla libertà e al compimento del processo democratico possa plaudire con tanto di fuochi d’artificio  quello che è, a tutti gli effetti, un golpe dell’esercito.In secondo luogo, non abbiamo ancora capito come siano riusciti Morsi e i Fratelli Musulmani a dilapidare in appena un anno tutto il consenso e l’approvazione popolare ricevuti in seguito alla caduta di Mubarak.
Infine ci siamo chiesti cosa abbiano da festeggiare e da gioire tanti giornalisti che pure dovrebbero sapere benissimo che simili eventi sono destinati a fare scuola e a suscitare uno sconfinato desiderio di emulazione da parte di coloro che, specie nei paesi più in crisi, non aspettano altro che il momento opportuno per smantellare le regole democratiche e le garanzie costituzionali, potendo magari contare, come è accaduto in Egitto, sul consenso e sull’approvazione di un popolo allo stremo e disposto a pagare qualunque prezzo pur di potersi nuovamente illudere di riuscire a migliorare le proprie condizioni di vita.

El Baradei. L’Egitto potrebbe rischiare il default
Non a caso, poche ore prima della deposizione e dell’arresto di Morsi, il premio Nobel per la Pace El Baradei ha scritto: “Ogni giorno, al risveglio, circa un quarto dei nostri giovani non ha un lavoro da svolgere. In ogni settore, i fondamentali dell’economia appaiono sballati. Nei prossimi mesi l’Egitto potrebbe rischiare il default del proprio debito estero, e il governo sta disperatamente cercando di ottenere da diverse fonti una linea di credito. Ma non è così che si rimette in moto l’economia”. Già, e leggendo queste affermazioni la mente non può che correre ai numerosi stati europei, specie nel Sud, che versano più o meno nelle stesse condizioni: dalla Grecia al Portogallo, senza dimenticare Cipro ma, soprattutto, la Spagna e l’Italia.
Perché in questo caso la religione c’entra veramente poco. Certo, nella rabbia popolare hanno pesato senz’altro anche le posizioni fanatiche e regressive del Presidente e dei suoi più stretti seguaci, ma la rivoluzione non ha avuto luogo in quelle dimensioni a causa della Sharia e nemmeno delle assurde posizioni di Morsi in fatto di etica e costumi, leciti o meno.

La disperazione di un Paese ridotto in miseria

Come purtroppo spesso accade, a pesare è stata soprattutto la disperazione di un Paese ridotto in miseria, in cui nessuno ha più una sola certezza e i Fratelli Musulmani  – come ricordato – hanno sprecato malamente la propria occasione di governo, tradendo le promesse avanzate nei mesi delle manifestazioni anti-Mubarak e nel corso della campagna elettorale.
Ora non resta che quell’immensa piazza rigonfia di “spiriti animali” inappagati: una protesta spontanea, profonda, intensa, mostruosa per dimensioni e durata e pronta ad estendersi ad altre realtà di quella Regione-polveriera che non versano certo in condizioni migliori dell’Egitto.
E in tutti noi, si addensa, atroce, un interrogativo: fallita la svolta democratica del post-Mubarak, con Morsi e gli altri leader della Fratellanza Musulmana oramai fuori gioco, la Costituzione sospesa e la Nazione in bilico tra un nuovo regime e un’utopistica prospettiva di libertà, non è che a qualcuno, in Occidente, stia sorgendo il dubbio che un mondo in cui le disuguaglianze hanno raggiunto proporzioni intollerabili non sia governabile se non con il pugno di ferro e le decisioni imposte dall’alto?

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