Riforme, sotto il peso delle promesse e degli inganni. A rischio lo stile del dibattito costituzionale

ROMA – Come le persone, anche le parole si stancano, dice il libro dell’Ecclesiaste. Sotto il peso delle promesse, degli inganni e delle delusioni si è sfiancata perfino la parola riforma. Concediamole un po’ di riposo almeno in questo dibattito.  Nessuno dei problemi istituzionali è stato risolto e molti sono stati aggravati dalla proposta di revisione costituzionale insieme con l’Italicum. Segnalo quattro questioni. 

La prima è che da quasi un decennio gli elettori chiedono di poter guardare in faccia gli eletti, ma qui si decide di voltare le spalle. I cittadini continueranno a non scegliere i deputati e non eleggeranno neppure i senatori, né il presidente della Città Metropolitana, né i consiglieri della Provincia, che rivive con il brutto nome di Area Vasta. Il risultato è che il ceto politico elegge il ceto politico. È un grande azzardo restringere la rappresentanza proprio mentre viviamo forse la più grave frattura tra società e istituzioni della storia italiana.  I consiglieri regionali che hanno problemi con la giustizia saranno incentivati a farsi nominare senatori per godere dell’immunità estesa alle cariche non elettive. E per i cittadini viene indebolito lo strumento del referendum; quello di Mario Segni nel post-Tangentopoli, ad esempio, non sarebbe più possibile. Forse è un segno dei tempi – accade alle rivoluzioni mancate di essere poi anche rinnegate. 

Nel complesso, si perde l’occasione per ricostruire la fiducia popolare nei confronti delle assemblee elettive. Secondariamente c’è un passo indietro nel punto più delicato del bilanciamento dei poteri. Un partito minoritario che raccoglie meno del 20% degli aventi diritto al voto può vincere il premio di maggioranza e utilizzarlo per conquistare le massime cariche dello Stato, la Corte Costituzionale e la Presidenza della Repubblica. I relatori hanno riconosciuto che il problema esiste, ma non hanno saputo o voluto risolverlo. La proposta di alzare il quorum nelle prime otto votazioni non impedisce al primo partito di attendere la nona votazione per imporre il proprio candidato. Si voleva sapere la sera delle elezioni chi governa, così si conoscerebbe anche l’inquilino del Quirinale.

Mi si risponde che era già così con il Porcellum; bene, lo si dovrebbe dunque correggere, invece il testo aggrava lo squilibrio. La Camera mantiene i 630 deputati con la forza del premio di maggioranza, mentre si indebolisce l’altro ramo dei cento senatori, privati della libertà di mandato, che può fondarsi solo sull’elezione diretta. Migliore equilibrio si avrebbe con la diminuzione del numero dei deputati, oggi il più alto in Europa in rapporto alla popolazione. Nessuno ha spiegato perché non si può. Eppure dovrebbe esserne entusiasta Renzi che voleva risparmiare sulle indennità; il Pd negli anni passati l’ha sempre considerata una priorità e i colleghi Romani, Sacconi e Casini la votarono quando erano in maggioranza nel 2005. Perché tutti ci hanno ripensato?

Terzo il superamento del bicameralismo paritario era l’occasione per rafforzare la democrazia parlamentare. Invece il potere legislativo viene assoggettato definitivamente all’esecutivo, il quale sarà tentato di utilizzare i voti del premio di maggioranza non solo per governare il paese – come è del tutto legittimo – ma anche per stravolgere a suo piacimento la legislazione fondamentale, ad esempio sulla libertà di stampa, i servizi segreti, l’autonomia della Magistratura, l’amnistia e l’indulto, le sensibilità religiose, le libertà personali oppure per modificare a proprio favore la stessa legge elettorale al fine di ottenere la vittoria alle successive elezioni. Potrebbe diventare di parte perfino la decisione più grave, la guerra. Quella stessa guerra che i costituenti ci ammonivano a ripudiare. Quella stessa guerra che ritorna nella foto terribile delle vittime innocenti di fronte alla moschea di Gaza.

La legislazione fondamentale viene sottratta allo spirito di parte nella proposta Chiti, in modo da costringere i partiti a condividere le regole fondamentali nel Senato eletto con legge non maggioritaria, e a competere per il governo nella Camera depositaria del voto di fiducia. Sarebbe il passo in avanti verso una democrazia matura. Si vuole invece realizzare quel “premierato assoluto” paventato da Leopoldo Elia, indebolendo la separazione dei poteri come non accade in nessuna democrazia europea.

Infine, la relazione Stato-Regioni diventa ancora più confusa, anche per la scarsa cura che la Commissione ha dedicato all’argomento, pur essendo tecnicamente più complesso degli altri. È un grave errore abbandonare la legislazione concorrente, che è l’essenza di un regionalismo cooperativo, l’unico possibile in un paese segnato da storiche fratture, come ha sottolineato Massimo Luciani. Si sceglie al contrario una netta separazione tra competenze esclusive dello Stato e delle Regioni che non lascia più alcun margine di mediazione, rendendo quindi irrisolvibile il conflitto di competenze. 

Come queste vengono attribuite non è rilevante in questo ragionamento, poiché è sufficiente una semplice considerazione logica per riconoscere che qualsiasi modello esclusivo aumenta il contenzioso rispetto al modello cooperativo. Questo non ha funzionato negli anni duemila non per i suoi presunti difetti, ma per la dissennata applicazione da parte dei governi di destra e di sinistra, che avrebbero dovuto elaborare solo leggi cornice e invece hanno proseguito a legiferare nel dettaglio, istigando le Regioni a eccessi opposti. 

Il Senato delle Autonomie non sarà in grado di comporre i conflitti, anzi potrebbe esasperarli. Ad esso viene attribuita una fantomatica funzione di raccordo con un’espressione retorica priva di qualsiasi significato giuridico cogente. Nella realtà quell’assemblea sarà a chiamata ad approvare dei testi normativi sui quali si formeranno delle maggioranze e delle minoranze in base ai rapporti di forza tra Regioni ricche e Regioni povere. Venendo a mancare la mediazione politica della rappresentanza territoriale – che pur con i suoi limiti ha contenuto fin qui le pulsioni separatiste – il nuovo Senato accentuerà la frattura tra Nord e Sud, con il rischio di indebolire ulteriormente l’unità nazionale. 

Rivolgo un appello alla mia parte politica. Abbiamo discusso a lungo nel gruppo Pd. Sono chiare le differenze, ma per me sono più importanti le comuni visioni. Tra noi condividiamo anche alcune insoddisfazioni per certi articoli. Non lasciamole ai discorsi di corridoio, non abbandoniamole ai rimpianti silenziosi, trasformiamole in proposte da condividere con gli altri gruppi. La lunga durata costituzionale non consente a nessuno di riconoscere un errore senza impegnarsi a correggerlo. In questa aula il primo partito deve essere protagonista fino alla fine nel migliorare la Costituzione. 

Le migliorie saranno tanto più intense quanto più ci allontaneremo dalle motivazioni e dai metodi che hanno fin qui deformato il dibattito.

Per la cancellazione del Senato elettivo sono state date motivazioni occasionali, alcune surreali, come “serve a creare posti di lavoro”, altre tipiche del provincialismo italiano, mentre i Cameron, Merkel e Hollande non cancellerebbero organi costituzionali per fare bella figura ai vertici europei.

Ma c’è una motivazione più vecchia: togliere il freno che impedisce al governo di decidere. È la bufala che politici e giornalisti raccontano agli italiani da venti anni. Si dicono falsità sulle famose “navette” di leggi che vanno più di una volta tra un ramo e l’altro, ma sono solo il 3% e riguardano testi scritti molto male dal governo. È invece troppo facile approvare le leggi, e anzi le più veloci sono anche le più dannose. Sono bastate poche settimane alla destra per approvare il Porcellum e le leggi ad personam, e alla sinistra per contribuire al pasticcio degli esodati e allo sfregio costituzionale sul vincolo di pareggio del bilancio (che, per inciso, qui viene esteso alle Regioni). 

Tutti i campi della vita pubblica sono soffocati dall’asfissiante produzione legislativa, nella scuola, nel fisco, nell’amministrazione, nella previdenza, nel territorio. Ogni settimana arrivano in aula disegni di legge pomposamente chiamati riforme, e che invece sono spesso accozzaglie di norme eterogenee e improvvisate, a volte dannose o inutili. Lo dimostra il fatto che sono rimasti nel cassetto ben 750 decreti attuativi. 

Qui si dovrebbe davvero cambiare verso: poche leggi all’anno, di alta qualità, delegificazioni per costringere i ministri ad amministrare invece che a legiferare, controlli parlamentari sui risultati. A tale innovazione valeva la pena dedicare il nuovo Senato come Camera Alta delle leggi organiche, dei grandi Codici, dell’attuazione costituzionale, della raccolta dei frutti della conoscenza e della cultura del Paese. Con la produzione di leggi cornice la Camera Alta avrebbe portato ordine anche nelle relazioni Stato-Regioni, più autorevolmente di come possa fare il Senato delle Autonomie. 

Il superamento del bicameralismo paritario era l’occasione per dedicare un ramo del Parlamento ai pensieri lunghi, all’intelligenza riformatrice, alla saggezza pubblica. L’Italia avrebbe proprio bisogno di una Camera Alta come volontà aristocratica di derivazione democratica, così la chiama Mario Dogliani.

Per quanto riguarda il metodo, una tale serie di strappi non si era mai vista nella storia repubblicana. Mai il governo aveva imposto una revisione costituzionale, mai il relatore era stato costretto a presentare un testo che non condivideva quasi nessuno, mai i senatori erano stati destituiti per motivi di opinione. Arroganze inutili che hanno fatto perdere solo tempo. Se il Parlamento avesse potuto lavorare serenamente, la riforma del bicameralismo sarebbe stata approvata da mesi. 

Non ho mai detto che si tratta di una svolta autoritaria, né che si stravolgono i principi costituzionali – ci tengo a precisarlo – tanto è vero che ho votato contro la pregiudiziale.  È in pericolo invece un aspetto più semplice e per così dire più intimo: lo stile del dibattito costituzionale. I critici della proposta sono stati definiti gufi, sabotatori, rosiconi e ribelli. Parole che non sarebbero mai state pronunciate dai costituenti, certo divisi dalla guerra fredda e dalle ideologie novecentesche ma sempre disponibili al colloquio delle idee. Proprio oggi che siamo tutti liberali viene meno il rispetto nel dibattito. La politica postmoderna ha sempre bisogno di fabbricarsi un nemico. Come in un videogioco si elimina un mostro e subito se ne presenta un altro per tenere alta la tensione emotiva. L’operazione simbolica vince sul merito. Conquistare lo scalpo del Senato elettivo sembra parte di un incantesimo, che serve a rassicurare e a consolare i cittadini per la mancanza di vere riforme.

L’elegante lingua italiana dei padri costituenti, con le sue parole semplici e profonde, viene improvvisamente interrotta da un lessico nevrotico e tecnicistico, scandito dai rinvii ai commi, come un regolamento di condominio. Il linguaggio è la rivelazione dell’essere, diceva il filosofo. La Costituzione è come la lingua che consente a persone diverse di riconoscersi, di incontrarsi e di parlarsi. La Carta è il discorso pubblico tra i cittadini e la Repubblica, è il racconto del passato rivolto all’avvenire del Paese.

Se la Costituzione è una lingua lo stile è tutto. Senza lo stile è possibile l’autocompiacimento del ceto politico, ma non il riconoscimento repubblicano.

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