Riforme costituzionali, il terreno dello scontro e della divisione

ROMA – Ormai più che alla palude siamo al guazzabuglio: nella confusione massima, in cui tutti gli elementi si confondono. E una ragione c’è. Purtroppo le riforme costituzionali sono divenute in Italia – non da oggi – il terreno dello scontro, delle prove di forza, della massima divisione. È avvenuto nel 2001, nel 2005-2006, nel 2014. Proprio nella legislatura in cui più frequenti sono stati e ancora sono – da parte delle diverse forze politiche – i richiami al “cambiamento” si consuma uno scontro già visto con metodi e contenuti già abusati. Niente di nuovo, insomma.

Nessun cambiamento, purtroppo. Le riforme – lo abbiamo detto più volte nei mesi scorsi – dovevano essere affrontate diversamente, seguendo le procedure previste (senza perdere sei mesi a tentare di approvare una deroga all’art. 138, poi riposta in un cassetto senza spiegare perché né chiedere scusa ai cittadini), che indicano una certa lentezza. Che non significa perdere tempo (come avviene con continue accelerazioni e battute d’arresto, come quella che c’è stata sulla legge elettorale), ma impiegarlo per riflettere e valutare attentamente. Più che sui tempi bisognerebbe concentrarci sulle scelte, che dovrebbero essere compiute con il reale apporto di tutti.

Chi può davvero partecipare alla discussione e contribuire (anche semmai rimanendo poi in minoranza) alla decisione finale, sarà più agevolmente persuaso da quest’ultima. Non così chi si vede imporre con rigidità una soluzione, rispetto alla quale potrà essere tentato di opporre una altrettanto irrigidita reazione.

Per essere più precisi, l’attuale riforma costituzionale, al contrario di quanto si dica, è stata discussa molto poco e assai male. Al netto di eventuali conversazioni private tra uomini pubblici in stanze appartate, l’unica discussione si è svolta, prima che nell’aula del Senato, dove è appena iniziata con fatica, nella commissione Affari costituzionali del Senato stesso. Dove la prima riunione è stata immediatamente molto tesa e si è risolta con l’approvazione con l’adozione – con molta fatica (e il sopraggiungere all’ultimo del “soccorso azzurro”) – come testo base del d.d.l. del Governo non in tutto compatibile con il già approvato ordine del giorno Calderoli.

Molti hanno sottolineato come l’adozione di quel testo base potesse risultare difficile da sostenere a fronte delle numerose proposte alternative, soprattutto sui profili della composizione del Senato e di alcune sue competenze legislative. Ma si è andati avanti come se nulla fosse, alzando ancora il livello dello scontro, fino a sostituire nella stessa Commissione i componenti che rispetto al testo governativo avevano mosso alcune critiche di fondo (pur sostenendone altri aspetti, a partire dalla necessità di differenziare le due Camere).

Certamente questo non ha agevolato la composizione delle diverse posizioni e ha reso il lavoro della Commissione meno utile. In essa, infatti, non si sono potute confrontare pienamente le diverse ipotesi di modifica del bicameralismo paritario, che quindi si sono riversate sull’aula. Del resto si è espressamente detto (a nostro avviso imprecisamente) che così doveva essere: che in Commissione era necessario procedere compatti per rinviare il confronto in aula. E in effetti il lavoro della Commissione è stato abbastanza concentrato, perché, al netto dell’interruzione durante la campagna elettorale per le elezioni europee, è durato effettivamente circa un mese, sviluppandosi in una ventina di riunioni per riformare oltre quaranta articoli della Costituzione.

In queste condizioni era chiaro che il vero confronto non potesse che svolgersi – come auspicato dalla stessa maggioranza – in aula, dove alcuni dei sostenitori di una diversa riforma del bicameralismo hanno per la prima volta voce e altri comunque per la prima volta possibilità di un più pieno sostegno.

Ora, non so più come dirlo, l’errore consiste nel non avere saputo valorizzare il confronto in Commissione, ma più grave sarebbe continuare ad alzare i toni e a irrigidire lo scontro, con minacce di contingentamenti, ghigliottine e lavori forzati (e quindi mal riflettuti), per chiudere con tempi la necessità del cui rispetto non pare avere alcun concreto riscontro. In realtà, le riforme costituzionali – la cui lunghezza è costituzionalmente imposta – possono tranquillamente procedere nel corso della legislatura, facendo tesoro di tutti i contributi che fino ad ora – lo ripetiamo – non hanno potuto trovare spazio in alcuna sede. Intanto che queste vanno avanti, altre riforme più urgenti (da quella del lavoro a quella della pubblica amministrazione a quella del fisco, per citarne alcune tra quelle avviate) potrebbero essere approvate. Da ora al 2018, che rappresenta l’orizzonte che a questa legislatura si è voluto dare (contro l’avviso di coloro che – più opportunamente anche ai sensi della sentenza 1 del 2014 – chiedevano l’approvazione di una legge elettorale e poi il ritorno al voto per fare meglio tutto il resto), potranno così essere realizzate una serie di riforme più urgenti e immediatamente percepibili dai cittadini e, in fine, anche quella riforma costituzionale che in ogni caso prima della fine della legislatura (e quindi del 2018, appunto) non potrebbe trovare applicazione.

Proseguire alzando sempre più i toni potrebbe far perdere un’altra occasione. Invece, con toni più pacati, con una discussione reale e larga, con la disponibilità all’ascolto e alla formazione di una maggioranza, senza imposizioni né impuntature da nessuna delle parti (magari sfumando un po’ il ruolo dell’esecutivo, accogliendo così almeno in parte l’insegnamento di Calamandrei), si giungerebbe più probabilmente ad una riforma. 

Certamente a una riforma migliore anche perché nuova nel metodo e nel merito, magari pensando, da quest’ultimo punto di vista, oltre che a rafforzare il Governo, anche a favorire una maggiore partecipazione dei cittadini. Oggi non sembra ma magari domani scopriremo che è ancora possibile.

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