Palmiro Togliatti, cinquant’anni dopo

 

ROMA – In ogni anniversario, a Togliatti tocca un ruolo ormai fisso, quello di interpretare il ruolo dell’ospite sgradito. Eppure, proprio a questo scomodo padre costituente, scomparso cinquant’anni, fa si deve il recupero della sovranità nazionale nel dopoguerra. Con la svolta di Salerno, e con l’appoggio dei comunisti ad un governo di transizione a guida monarchica, egli è ben consapevole di aver schivato “il pericolo di un governo instaurato dalle armate alleate”. Un pericolo, lo chiama giustamente, perché avrebbe fatto dei capi delle potenze alleate, e non dei rappresentanti del popolo italiano in armi con i gruppi partigiani, gli artefici di una transizione pilotata dall’alto, e quindi senza alcuna convocazione di una libera e sovrana assemblea costituente. 

C’è davvero molta ignoranza in chi ancora misconosce la funzione decisiva di Togliatti nella rinascita dello Stato italiano, nelle forme di un costituzionalismo democratico. Interprete di una politica che coltiva riflessione (con il pessimismo dell’analisi, che richiede “una ricerca priva di passione”), depositario di una leadership che è tale solo in forza della superiorità del pensiero, e che è rispettata dai militanti e dai quadri dirigenti solo in base alla fecondità dell’analisi che trova verifica nei processi reali (“nella politica sta la sostanza della storia”), è in fondo un bene che le presunte élite di questa misera epoca di decadenza italiana non lo apprezzino. Togliatti è estraneo a questo presente di basso profilo, le sue sono considerazioni inattuali. Fortunatamente inattuali, perché evocano l’altro, invitano ad un salto, preparano le manovre per una ribellione contro l’eutanasia del politico, che è in pieno corso.

Alla sua opera bisogna guardare per ricominciare dopo la catastrofe di una tradizione che ha cessato di parlare. Al partito di tipo nuovo, di ascendenza leninista, egli da subito contrappone il “partito nuovo”. Cioè una cosa nuova, costruita sul campo, senza riferimenti dottrinari o imitazioni di modelli già disponibili. Se altro è il progetto (“creare qualcosa di nuovo, attraverso un’azione politica”), diversa deve essere anche la forma che lo invera nella storia. Se inedito, e assai più lungo, è il percorso della trasformazione sociale (dentro la democrazia formale ma con “uno sviluppo progressivo economico, politico e sociale permanente”), originale, secondo Togliatti, deve risultare anche la macchina che lo compie. Serve cioè una macchina specifica, che abbia appreso la lezione dell’autonomia della politica, per gestire il tempo lungo e cogliere le occasioni dell’innovazione.

L’autonomia del politico supera “il feticismo economicista” della piccola politica solo rivendicativa e per Togliatti comprende “tanto l’avanzata quanto la ritirata o l’arresto, tanto la vittoria quanto la sconfitta”. L’autonomia della politica è la bussola in una lotta di lunga durata per la modificazione dei rapporti di forza, con momenti di “organizzazione, di coscienza, e anche di congiuntura”. Essa esige un abito realista e richiede il disincanto dell’analisi, che non può costruire narrazioni effimere. “La realtà, il presente, diventa una cosa dura, su cui occorre violentemente attrarre l’attenzione, se si vuole trasformarla”. Anche se “le ideologie sono una realtà” che spingono all’agire collettivo, l’analisi per Togliatti deve restare priva di semplificazioni e di comode rassicurazioni. In questo, per il leader comunista, consiste “l’autonomia” delle sovrastrutture politiche teorizzata da Gramsci. 

Tra i principi di realtà, che Togliatti accetta come indiscutibili, rientra il corredo della democrazia-metodo. E’ possibile conquistare “nuove libertà”, “vivere meglio”, mantenere una “critica radicale” del presente, in vista di “una rivoluzione degli ordinamenti sociali”, conservando ben saldo però “il metodo della democrazia”. Il progetto comunista in Togliatti è proprio quello di “dare alla democrazia un nuovo contenuto di riforme politiche ed economiche radicali”. Ciò esige la necessità di evocare l’altro, ma di perseguirlo con il metodo del consenso. Negli anni ’60, contro “il processo di sviluppo neocapitalistico”, Togliatti parlerà di “cose nuove nello stesso sviluppo del metodo e degli istituti democratici” (crescita del potere operaio nella fabbrica, forme nuove di partecipazione: ma sulla riforma dello Stato “la ricerca è appena iniziata”). 

Il partito-macchina inventato da Togliatti deve mostrare una attitudine costruttiva “in tutti i rami dell’azione sociale”. E’ evidente, in questo abbozzo di partito curioso che sa stare nel gioco politico e manovrarne le regole con astuzia, l’intreccio tra modulo organizzativo e cultura politica. Ne è ben consapevole Togliatti quando asserisce che una opzione politica diventa anche organizzazione, la quale però “non è un’arte staccata dalla vita”, dai “principi di interpretazione della realtà”. Non vi sono cioè “formule definitive” in materia di forma partito, e il disegno della macchina dipende sempre dalla consapevolezza storico-politica del progetto. Quanto al profilo organizzativo del partito, nota Togliatti, “una soluzione bella e fatta non la troviamo. Dobbiamo elaborarla noi attraverso la nostra esperienza e studiando le esperienze degli altri partiti”. Il partito è analisi, storia, pensiero, comparazione. 

Attingendo ad altri modelli della organizzazione politica europea, e immettendo in più nell’amalgama degli originali materiali italiani, Togliatti approda ad una inedita forma partito. Al modello di partito incardinato sulle cellule come formazione di base, egli preferisce la definizione di una organizzazione decentrata, con la sezione innalzata in una posizione preminente, quale cruciale istanza intermedia. La questione non è solo tecnica. La cellula discute solo di “problemi di categoria”, e quindi non risponde all’obiettivo strategico prioritario di un superamento della ristretta dimensione economico-corporativa. Con l’invenzione organizzativa, il partito deve conquistare una “autorità politica di fronte a tutta la cittadinanza”. Un partito “non chiuso” capace di azione politica, deve trascendere la cellula (che deve rimanere, ma con delle microaggregazioni di 3-5 persone, che si conoscono e si controllano) e deve investire nelle sezioni concepite da Togliatti “come centri della vita popolare, ove debbono andare tutti i compagni, i simpatizzanti e quelli senza partito”. Il tragitto dalla cellula alla sezione è l’espressione organizzativa della ricerca dell’autonomia della politica rispetto all’economicismo e al massimalismo. 

Le sezioni, nell’affresco di Togliatti, devono “diventare organismi politici dirigenti nel senso pieno”, e quindi “non devono essere soltanto delle specie di cassette postali per ricevere circolari e trasmettere ordini e disposizioni amministrative”. Il partito suppone dunque una circolazione costruttiva tra centro e periferia che ha per scopo la mobilitazione di ampie energie, da motivare nel lavoro politico continuativo. Non esiste un partito con un uomo solo al comando, perché occorre partecipazione, passione, coinvolgimento di centinaia di migliaia di iscritti. Dopo aver sistemato il partito aprendolo verso il basso con scarne istanze intermedie e “gradini burocratici”, con un occhio curioso verso la socialdemocrazia tedesca del primo Novecento, Togliatti avverte la necessità di dargli una anche una peculiare curvatura verso l’alto. Contaminando le formule organizzative in un fertile ibrido creativo, Togliatti avverte: “siamo già un partito di massa, dobbiamo acquistare anche le principali qualità di un partito di quadri”. 

Ne vien fuori uno straordinario partito anfibio, con un corpo socialdemocratico, cioè di massa, di popolo, e con una testa occupata da una ampia èlite comunista consapevole, con delle buone letture teoriche (“un marxismo vivente”) e delle conoscenze storiche approfondite (“elevare il livello ideologico dei quadri”). Dire quadri significa per Togliatti soprattutto favorire ad ogni livello “la promozione dei più giovani militanti del partito”, superando così le ristrette procedure di un’organizzazione che non dà a ciascuno un incarico di lavoro e in molti territori rimane occupata “da vecchie bandiere cariche di gloria”. Costoro “costituiscono un ostacolo allo sviluppo del partito”. Occorrono nuovi quadri (soprattutto intellettuali giovani, da sperimentare subito nelle “loro capacità direttive”) per realizzare una nuova funzione dirigente.

Il partito nuovo, come deposito di classi dirigenti autorevoli, lo costruisce il centro, cioè una consapevole leadership nazionale, non si sviluppa per un parto spontaneo della società. In questa costruzione dei quadri, bisogna evitare l’affollarsi di troppe istanze periferiche che “possono costituire una barriera fra la periferia del partito e il suo centro”. Dal centro occorre inviare quadri nazionali incaricati di dirigere le grandi organizzazioni periferiche e di formare nuove leve di dirigenti necessarie alla nuova cultura politica. Altri leader nazionali si dedicano al lavoro parlamentare. Il significato originale (e eccentrico rispetto alla tradizione leninista) del partito nuovo, come cerniera tra società e istituzioni, tra territorio e rappresentanza, non sfugge a Togliatti. Egli all’inizio lo progetta come il cantiere dell’unità dei partiti del movimento operaio. Il partito nuovo, per certi versi, nasce come una invenzione oltre comunista, il cui destino è quello di realizzarsi in altro. 

Ciò non significa che la giraffa togliattiana non fosse comunista, ma lo era in una maniera inedita. Il Pci occupava consapevolmente anche uno spazio socialista e socialdemocratico. Questo è peraltro il senso dell’opzione per il partito di massa (che “ricostruisce” il sindacato, le cooperative). Il partito nuovo nasce in Togliatti come  un’ipotesi di unità delle forze socialiste espressioni del movimento operaio italiano. Lo avverte senza reticenze lo stesso Togliatti: “quando abbiamo lanciato la parola della creazione di questo partito nuovo, pensavamo che questo compito l’avremmo realizzato attraverso la fusione con il partito socialista”. L’ipotesi è scartata dagli accadimenti del dopoguerra, ma rimane sotto traccia come un modello che può risvegliarsi. “E’ evidente che l’obiettivo della fusione per noi rimane e tendiamo ad esso. La creazione di un solo partito della classe operaia e dei lavoratori rimane uno dei nostri scopi fondamentali”. 

Il partito nuovo è un partito comunista che (se ne è il caso) si concepisce geneticamente oltre l’esperienza comunista, che non si ritrae dinanzi alla possibilità storica di altre soluzioni organizzative all’autonomia politica del lavoro. Togliatti parla di gravità e di difficoltà connesse a tale condizione paradossale di un partito comunista aperto al suo superamento, nel solco del movimento operaio: “una gran parte di quelle attività che pensavamo sarebbero state caratteristiche  del partito sorto attraverso la fusione, dobbiamo oggi realizzarle da soli, come partito comunista”. Il tema del “partito unico della classe operaia” non si pone sulla base della credenza che Livorno fu un errore (era invece un ineluttabile processo europeo), il frutto avventato di “un gruppo scalmanato”. Togliatti allude ad altro. E cioè al fatto che ciò che permane come inalterabile è il fondamento di classe, che non è mai rimuovibile, mutevoli possono invece essere le espressioni organizzative, che assumono il ruolo di strumento malleabile. 

Operai e lavoratori, non coincidono nel lessico di Togliatti. Egli, oltre agli operai, allude ai ciabattini, agli artigiani, alle figure oggi appartenenti ai lavoratori autonomi e che invece sono delle componenti organiche nella storia del proletariato in Italia. Un partito di classe e di popolo sa interpretare anche il momento dell’interesse generale, svolgere cioè una funzione nazionale (ovvero, fuori dalla retorica, “rapporto con altri gruppi sociali”, politica di alleanze). In questo risiede l’autonomia del politico e la differenza qualitativa tra la forma del partito e il compito di un gruppo di interesse. Rileva Togliatti, sulla scia di Gramsci (per il quale la differenza tra società civile e società politica è soltanto metodologica): “il partito fa parte della sovrastruttura della società. La sovrastruttura non è un elemento passivo; ha anche una sua autonomia”. L’autonomia politica del partito della classe operaia, questo è il succo del progetto togliattiano racchiuso con efficacia nella formula “partito di massa e partito di lotta”. 

Per sorreggere il progetto della liberazione dei lavoratori è indispensabile il partito politico, come cultura e come organizzazione. Da Gramsci egli ricava l’ipotesi che “il regime dei partiti diventa una necessità della storia”, cioè lo strumento insurrogabile del funzionamento del potere. A Togliatti non sfuggono le degenerazioni oligarchiche che possono colpire i partiti. Ci sono oligarchie da combattere, “l’essenziale, però, è che senza una attività continua dei partiti, non può esistere democrazia politica”. Questo è l’atteggiamento corretto, critica del malaffare, delle patologie criminogene ma senza coinvolgere il ruolo del partito. Per questo Togliatti si scaglia contro “la tendenza nettamente reazionaria che denuncia il partito politico come un elemento di disturbo, e quasi di degenerazione”. 

E’ evidente che Togliatti è un padre nobile della repubblica dei partiti, poco apprezzato per questo proprio dai profeti di inesistenti repubbliche dei cittadini. I fallimenti della seconda repubblica, e il tracollo del suo mito della società civile culminato nel dominio di partiti patrimoniali, conferma la fecondità dell’assunto di Togliatti che “l’esistenza del partito politico –anzi, precisiamo, l’esistenza dei partiti politici- è indispensabile per l’esistenza stessa e per lo sviluppo di un regime di democrazia”. L’inattuale Togliatti, il rimosso, lo scomodo, il non evocabile, insomma l’uomo dalle scarpe chiodate, il capo senza più eredi ha ancora delle frecce nel suo arco, troppo in fretta abbandonato da chi dopo l’89 ha consentito che si oscurasse il contributo fondamentale dei comunisti italiani nella vicenda repubblicana.

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