Non basta piangere una volta l’anno. Chi sopravvive a Lampedusa?

 

ROMA – E’ una questione di superfici, quella che si muove attorno a Lampedusa. E’ una questione di superfici, quella che descrive un luogo simbolo delle migrazioni tra Sud del Mondo e casa (o cosa) nostra.

E’ una questione di superfici, l’accoglienza dell’altro da queste parti. E’ una questione di superficialità, il racconto dei fatti, prima e dopo lo spartiacque del 3 ottobre scorso, un punto di non ritorno che è tale solo per la conta dei morti e per l’allestimento di una cerimonia in grande stile, dove le telecamere puliscono la vergogna dei potenti, dicendo: loro c’erano. Sono superfici, quelle che attraversano i poveri uomini, superfici che cambiano a seconda degli anni, delle guerre che da qui, dalle nostre poltrone, noi vediamo e ci facciamo giustificare dai nostri burattinai. Sono superfici con confini segnati dai colonizzatori di un tempo, sempre nostri amici, se non connazionali – è il caso dell’Eritrea -, confini fatti con la squadra e il righello, giocando a fare i geometri delle civiltà senza pensare alle culture, alle storie degli abitanti del posto.

Allora è successo negli anni che  all’attacco dell’Afghanistan sono seguiti milioni di profughi, all’appoggio diretto di dittature, di governi non votati, di un’etnia invece che di un’altra sono seguiti spostamenti di persone dalla Costa D’Avorio, dal Mali (dove per altro si è intervenuti lo scorso anno), dalla Mauritania (unico paese al mondo dove è ancora diffusa la schiavitù), dal Sudan, dall’Eritrea. Poi accade che si interviene in Siria, in Iraq…Che si incide silenziosamente su quasi tutte le primavere arabe ed è così che il continente africano si riempie di camminanti. Di uomini che non vogliono arrivare in Italia, nemmeno in Europa, vogliono solo avere salva la pelle.

Lampedusa è quel che vediamo emergere in superficie, è il teatro dove qualcuno ha deciso di sparare le luci, ma solo contando i chilometri di superficie marina dalla costa, perché di morti in acque non di pertinenza italiana e a quanto pare di pertinenza del solo fato sono continuate a morire persone. Non è il caso di criminalizzare uno Stato invece che un altro, perché criminali quando si è in casa e si finge di non esserci e fuori dalla porta c’è un disperato che chiede di entrare, oramai lo siamo tutti. E’ però il caso di non sentire chi finge di commuoversi e non accetta di prendersi le proprie responsabilità. E’ il caso di fischiare chi con una mano abbraccia qualcuno che realmente soffre e con l’altra taglia i servizi dell’accoglienza. E’ una questione di superficie, se chi racconta queste cose si ferma  proprio lì, lì dove è facile soffiare per vendere qualche copia di giornale in più o per alzare lo share. C’è da chiedersi se chi è scampato a quella tragedia oggi ha i documenti, se le promesse dei nostri politici sono state mantenute. No, non ha i documenti, no, le promesse di nostri politici non sono state mantenute. Qui il problema è fare chiarezza. E’ liberare la superficie da pregiudizi e pettegolezzi. Nessun migrante guadagna 40 euro, nessun migrante ha vitto e alloggio pagato a vita.

L’uso della marina nel Mediterraneo non costa nulla a confronto dei progetti in cui siamo impiegati a livello internazionale, servizi a volte a favore di privati (il caso dei Marò la dice lunga). Non è vero che chi viene da lontano è un clandestino. Ricominciamo da qui, ora che abbiamo i cinque minuti di commozione, chi approda a Lampedusa, non è un migrante economico. Non viene in Italia a rubarci il lavoro. Si tratta di minori non accompagnati, per cui la legge internazionale prevede la tutela sempre, o di richiedenti asilo. Non è quest’ultimo un escamotage, ma un diritto. Saranno le nostre commissioni territoriali a giudicare i casi e a riconoscere l’asilo per chi viene da Paesi in guerra o è vittima di persecuzioni e discriminazioni gravi, la protezione sussidiaria, la protezione umanitaria o a respingere la richiesta. Tutto ciò avviene con grande lentezza, inserendo i migranti in un limbo infinito. Questa parte del discorso, che spesso non arriva alla superficie annoia il popolo italiano, questo si sente aggredito, occupato, anche se resta ancora oggi un Paese con un bilancio pari tra emigranti e immigrati. Ecco, per far sì che queste questioni di superficie non si rivelino questioni di differenza di pelle (la superficie esterna del corpo umano) e di razzismo bieco legato a una nuova guerra tra poveri, ragioniamo su una cosa semplice: perché quando i nostri giovani non trovando lavoro se ne vanno in Germania  pensiamo siano degli eroi, dei geni, dei cervelli in fuga e, quando ragazzi a cui è stata negata l’infanzia, mettendogli in mano un fucile, ammazzandogli i genitori, scappano dal loro Paese, attraversano il deserto, cercano un futuro in Libia, poi noi occidentali gli bombardiamo anche questo secondo Paese (questo è successo, ma non lo diciamo, non lo consideriamo, non lo considerano nemmeno le commissioni territoriali, che se dovessero valutare concretamente anche le cose subite nel passaggio in Libia dovrebbero accettare la totalità delle richieste di permesso di soggiorno) e allora loro si stringono forte l’uno su l’altro in barconi della speranza organizzati da mafiosi collusi con i potenti e pregano Dio, Allah o la fortuna, di arrivare dall’altra parate del mare, sulla terra, perché quando a viaggiare sulla superficie, a camminare sulle acque non siamo noi italani, o Gesù Cristo, allora questi sono dei delinquenti, delle sanguisughe portatori di Ebola e di Tubercolosi? Lampedusa è nella tua città, è nell’altro, nel diverso da te.

Lampedusa è ogni giorno e se non scendi nel profondo delle cose, se nell’altro non vedi tuo figlio è solo colpa tua. Chi sopravvive a Lampedusa? Sopravvivono uomini che non trovano lavoro, come noi, che non hanno colpe, come noi, che hanno una dignità e delle storie da condividere. Non sono carne da macello, non sono un peso sociale, non sono dei  nemici. Sono esseri umani con delle emozioni 365 giorni l’anno. E noi? Non basta piangere una tantum per avere la coscienza a posto.

 

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