La “buona scuola” targata Renzi si affida all’hackathon

ROMA – “Per fare  la buona scuola non basta solo un Governo. Ci vuole un Paese intero”. Con questo slogan il governo, forse meglio il premier, intende avviare una consultazione, chissà quanto vera, con gli italiani “Perché ci aiutino a migliorare le proposte, a capire cosa manca, a decidere cosa sia più urgente cambiare e attuare”.

Non possiamo credere che un docente, quale è il ministro dell’istruzione, possa intendere per riforma un intervento sulle piante organiche o l’ estensione del decreto legislativo n. 150 del 2009, meglio noto come “riforma Brunetta”, agli insegnanti. Né si può parlare di riforma a proposito degli interventi (peraltro minimali) sull’edilizia scolastica o per la digitalizzazione del Miur.

Tuttavia, nella consultazione ad oggi non è ancora chiaro se rientrerà quella con i sindacati degli insegnanti. Forse a quelli che si misurano ogni giorno sul campo con i problemi, a chi ha qualche nozione di pedagogia, è difficile far credere che con gli slogan si possa innovare la scuola.

E dire che, scorrendo le prime due pagine del documento “La buona scuola. Facciamo crescere il paese”, quando si leggono frasi come:  “all’Italia serve una buona scuola che sviluppi nei ragazzi la curiosità per il mondo e il senso critico che stimoli la loro creatività”, si spera che l’epoca buia di Moratti e Gelmini sia definitivamente chiusa. Una pia illusione, perché entrando nel dettaglio ci si accorge che al peggio ormai non c’è fine.

“Lanciamo un piano straordinario per assumere a settembre 2015 150.000 docenti: tutti i precari storici, i vincitori e gli idonei dell’ultimo concorso. Bandiamo, nello stesso tempo, un nuovo concorso per permettere ad altri 40.000 abilitati all’insegnamento di entrare in ruolo sostituendo tra 2016 e 2019 i colleghi che andranno in pensione”.

Bene, finalmente si chiude l’orrenda piaga del precariato che tanto incide sulla vita di migliaia di insegnanti e si torna al dettato costituzionale. Tante volte ci siamo chiesti come si possa fare un lavoro così difficile e delicato senza avere alcuna certezza sul proprio futuro. Ma che andranno a fare i “nuovi assunti”? In 50.000 copriranno le cattedre scoperte; 18.000 insegnanti di musica, storia, arte e sport, oggi senza cattedra, andranno a rafforzare l’offerta formativa; 60.000 saranno utilizzati nelle scuola dell’infanzia e nelle elementari per le supplenze, per sostenere i passaggi da una scuola all’altra e nel tempo pieno; 20.000 saranno assunti nelle scuole secondarie di primo e secondo grado come “organico dell’autonomia”, ossia, “a disposizione di scuole, o di reti di scuole, sia per svolgere altri compiti legati all’autonomia e all’ampliamento dell’offerta formativa (insegnamenti ex­tra-curricolari, predisposizio­ne di contenuti innovativi per la didattica, progettualità di vario tipo, affiancamento ai tirocinanti, ecc.); sia, per coprire una parte delle supplenze brevi”.

Insomma, nasce l’insegnante à la carte.

Ma non basta, cadrà l’attuale “vincolo di destinazione” in base al quale si insegna nella provincia dove si è inseriti in graduatoria e si potrà essere destinati anche ad altra regione.

I primi ad essere usati come jolly saranno i docenti di materie che non ci sono più (steno-dattilografia, economia domestica, ecc), che dovranno riconvertirsi e insegnare materie affini. Se vi saranno rinunce si provvederà ad assumere innanzitutto i laureati in scienze della formazione primaria vecchio ordinamento e i cosiddetti congelati SISS rimasti fuori dalle graduatorie. Ma il premier è al corrente dell’ammontare delle buste paga degli insegnanti? In molti casi le rinunce saranno inevitabili.

Insomma, “grazie al piano straordinario di assun­zioni sarà possibile intervenire in modo efficace sulla scuola dell’infanzia e pri­maria per avere una crescita sana dei nostri bambini (educazione fisica) e lo sviluppo della loro sensibilità e del loro spirito critico (mu­sica, educazione artistica). Ci sarà la possibi­lità di una maggiore continuità didattica e di più classi a tempo pieno. Il conseguente po­tenziamento della scuola primaria e della se­condaria di primo grado si accompagnerà alle altre misure, quali soprattutto il rafforzamen­to del binomio scuola-lavoro, previste per le scuole secondarie di secondo grado, capaci di contrastare anche la di­spersione scolastica.“(sic!)

La novità è questa: si “innova” rafforzando il binomio scuola-lavoro piuttosto che inserendo gli asili nido nel percorso educativo. Per rilanciare il lavoro e dare pari opportunità bisogna partire da lì, aprire asili nido in tutti i comuni, incentivare le aziende ad aprirne. Così come avviene in tutti i paesi più evoluti.

Per assumere questi 148mila “nuovi” docenti si dice che saranno necessari 3 miliardi di euro, ma facendo meglio i conti sembrerebbero almeno 4,5 a meno che non si voglia anche ridurre ulteriormente lo stipendio dei neo assunti.

Nel 2016, e poi ogni 2 anni, dovrebbe essere bandito un concorso a cui potranno partecipare, in prima battuta, gli abilitati. In futuro, si prevede di riformare gli ordinamenti universitari, aggiungendo un ulteriore biennio specialistico a numero chiuso, improntato alla didattica e alla pedagogia, concluso il quale l’aspirante docente dovrà superare un tirocinio a scuola della durata di sei mesi. Sarà abilitato solo se otterrà dalla stessa scuola un giudizio positivo sul lavoro svolto. Se la valutazione sarà negativa, potrà riprovarci solo un’altra volta.

Altro capitolo è quello della formazione: “bisogna ren­dere realmente obbligatoria la formazione, e disegnare un sistema di Crediti Formativi (CF) da raggiungere ogni anno per l’aggiornamento e da lega­re alle possibilità di carriera e alla possibilità di conferimen­to di incarichi aggiuntivi. Questa formazione obbligatoria …dovrà esse­re definita a livello di Istituto …dovrà fondarsi sul superamento di approcci for­mativi a base teorica, e dovrà essere mutata invece in un mo­dello incentrato sulla forma­zione esperienziale tra colle­ghi, attraverso la creazione di una rete di formazione perma­nente dei docenti”. In altre parole, i docenti si formeranno a vicenda, aiutati dalle associazioni professio­nali mentre un’attenzione partico­lare sarà data alla “formazione dei docenti al digitale”. Le reti di scuole individueranno un docente di riferimento che “sarà referente per i propri col­leghi e loro sostegno per le pratiche di innovazione didattica”.

Pensavamo che fosse ora di fare della buona formazione, smettendola di ricorrere a corsi tanto scadenti quanto costosi, a volte scelti fra enti amici dei politici, e passando a corsi di formazione presso le università.

Ma quel che è peggio è che si mette in moto un meccanismo per creare docenti di serie A e docenti di serie B. Nasce la figura del mentor, ossia del docente che: “coordina le attività di formazione degli altri colleghi, compresa la formazione tra pari, accompagna il percorso dei tirocinanti … e in generale aiuta il preside (ma non si chiamavano dirigenti scolastici? ndr) e la scuola nei compiti più delicati legati alla valorizzazione delle risorse umane nell’ambito della didattica”. “Scelto dal Nucleo di Valutazione interno, tra i docenti che per tre trienni consecutivi hanno avuto uno scatto di competenza”. Rimangono in carica per tre anni e possono essere riconfermati, retribuiti con una indennità di posizione e nel loro ruolo continuano “a maturare, triennalmente, i crediti formativi, didattici e professionali”. In altri termini, saranno sempre gli stessi a prendere gli scatti stipendiali.

Con questa proposta, il contestato d.lgs n. 150/09, ideato dall’allora ministro della semplificazione, Brunetta, entra a scuola. “E’ necessario ripensare la carriera dei docenti, per introdurre ele­menti di differenziazione basati sul riconoscimento di impegno e meriti oltre che degli anni trascorsi dall’immissione in ruolo. Occorre quindi, prima di ogni altra cosa, un nuovo status giuridico dei docenti, che consenta incentivi economici basati sulla qualità della didattica, la formazione in ser­vizio, il lavoro svolto per sviluppare e migliorare il progetto formativo della propria scuola”. “Ogni 3 anni, due terzi (66%) di tutti i do­centi di ogni scuola (o rete di scuole) avranno diritto ad uno scatto di retribuzione. Si tratterà del 66% di quei docenti della singola scuola (o della singola rete di scuo­le) che avranno maturato più crediti nel triennio pre­cedente”. Lo stesso meccanismo sarà esteso anche al personale Ata.

Sarà istituito un registro pubblico dei docenti in cui saranno registrati curriculum e crediti di ognuno. I dirigenti scolastici potranno consultare l’elenco e scegliere i migliori per potenziare la propria scuola.  “Affinché progressivamente tutti i docenti abbiano, nel corso della loro carriere la possibilità di svolgere tanti lavori diversi ma complementari – dal fare lezione in classe, allo sviluppare la progettualità extra-curriculare, al seguire la formazione dei tirocinanti – che contribuiscono, tutti, a migliorare i progetti formativi delle scuole e in generale a far crescere i ragazzi”.

Ciascuna scuola, pubblica e paritaria, dovrà sviluppare un piano triennale di miglioramento che, se positivamente valutato, sarà finanziato. Alla valutazione concorrerà anche il successo scolastico degli studenti. Come dire che più promossi ci saranno, più sarà certo e alto il finanziamento.

Sarà costituita un’anagrafe delle scuole in cui sarà dato conto, oltre che dei suddetti piani di miglioramento, dei risultati raggiunti, dell’organico, della situazione degli edifici, del bilancio, delle interazioni con il territorio (partenariati con imprese, fondazioni, enti locali, eventi).

La scuola targata Renzi riflette a pieno la sua idea di governo (del paese e del partito di cui è segretario) dove è uno solo a decidere. Nella scuola il dominus sarà sempre più il dirigente scolastico, che accederà al ruolo mediante corso-concorso presso la Scuola superiore di pubblica amministrazione, perché “occorre puntare sullo sviluppo di competenze professionali connesse alla promozione della didattica e della qualificazione dell’offerta formativa”. Ma una scuola che seleziona tutti i dirigenti amministrativi dello Stato è idonea a selezionare chi si deve occupare di didattica? Una contraddizione, come la previsione di presidi manager ma affiancati da un “Direttore dei Servizi Generali e Amministrativi, suo braccio esecutivo per la parte di gestione contabile”.

I presidi verranno valutati e controllati da ispettori “reclutati per chiamata su progetto e competenze documentabili” fra i presidi stessi.

Non bastava lo Sbloccaitalia (ribattezzato dai più Rottamaitalia) arriva anche lo sbloccascuola, perché: “Serve fare, diretta­mente con i dirigenti sco­lastici, i docenti e il perso­nale amministrativo, una ricognizione dettagliata del­le 100 misure più fastidiose, vincolanti e inutili che l’am­ministrazione scolastica ha adottato nel corso dei decen­ni decen­ni, e abrogarle tutte insieme, con un unico provvedimento “Sblocca Scuola””. Pensavamo che il tempo dei Calderoli fosse finito!

Leggendo: “Vogliamo che la scuola diventi il filo forte di un tessuto so­ciale da rammendare. Che ritorni ad essere centro inclusivo e gravitazionale di scambi culturali, creativi, intergenerazionali, produttivi.” abbiamo sperato in un progetto forte che riportasse l’istituzione scolastica al centro delle comunità territoriali, invece subito dopo troviamo la frase: “Per liberare la scuola ci vuole più connessione, anzitutto digitale“.

Anche quella che sembrava una vera innovazione, le scuole aperte oltre l’orario curricolare, risulta essere una roba ben diversa da ciò che ci si aspetterebbe. Scuole aperte non per contrastare la dispersione scolastica, non per aiutare gli alunni più in difficoltà, non per aiutare chi ha genitori che lavorano fino a tardi o poco scolarizzati. Scuole aperte non per garantire pari opportunità di successo formativo ma per “coinvolgere le associazioni che si occupano di progetti educativi, culturali e sociali diretti a ragazzi e famiglie e dare a famiglie e associazioni del territorio (terzo settore) luoghi fisici per sviluppare progettualità.” Come se non bastassero i tanti spazi già assegnati e non sempre con criteri trasparenti ad associazioni.

Ma non basta, a realtà esterne verranno assegnati fondi europei per gestire i “laboratori del territorio” ossia “nuovi spazi formativi a disposizione della scuola, ma non sotto la sua gestione diretta, se non attraverso modelli “a rete” ”, perché “aprire la scuola significa mobilitare persone e competenze esterne”. E come se non bastasse si vuole avviare un “piano di servizio civile per la buona scuola”, aperto a singoli e dipendenti di imprese.

Per insegnare, come è noto, occorrono competenze specifiche che può avere, di certo, un ex insegnante ma non una persona qualsiasi. Questo, in realtà, sembra essere soltanto un modo per privatizzare parti del percorso educativo, assegnandolo al privato sociale e al terzo settore.

Ma veniamo alla revisione dei programmi educativi.

Nel capitolo cultura in corpore sano: musica, storia dell’arte e sport, si dice: “Nel corso degli anni la scuola ha indebolito la sua capacità di trasmissione di un patrimonio storico, culturale e creativo uni­co al mondo. Un patrimonio che è molto di più di una semplice tradizione da ricordare: è ciò che contraddistingue la nostra identità, e che alimenta la nostra creatività. La conoscenza dell’arte e della cultu­ra, così come la pratica della musica, devono essere più presenti tra gli insegnamenti che la scuola fornisce ai nostri giovani” fin dalle elementari.

A queste materie vanno aggiunti l’insegnamento delle lingue straniere fin dalla scuola dell’infanzia e l’informatica per fare dei ragazzi “dei produttori digitali” ossia dei programmatori.

Insomma, da un lato c’è un’inversione di rotta rispetto alla Moratti, che aveva tagliato proprio gli insegnamenti di arte, musica ed educazione fisica, dall’altro, si torna alle tre i della Moratti.

Nell’insieme le proposte non sono del tutto balzane, seppur poste con un accenno patriottico fuor di luogo, ma non si affrontano le vere carenze della scuola italiana in cui la cultura umanistica la fa da padrona rispetto a quella scientifica.

Rassegniamoci, resteremo un paese con pochi matematici e pochi scienziati, dove, conseguentemente, poco si investe nella ricerca scientifica.

Sapete come si contrastano la crescente dispersione scolastica (siamo al 17,6%) e la carenza di laureati in materie scientifiche (meno dell’8%)? Con l’alternanza scuola-lavoro obbligatoria negli ultimi tre anni degli istituti tecnici e professionali (dove già si pratica) per almeno 200ore l’anno e l’apprendistato negli ultimi due anni. Con la possibilità di vendere i prodotti della scuola e di mandare i ragazzi “a bottega” dagli artigiani. “Per sostenere un disegno chiaro, allineare filiere formative e filiere produttive”.

In altri termini: i programmi educativi vengono decisi dalle imprese, che ottengono pure manodopera a costo zero e finanziamenti (100 milioni). Inoltre, si istituiscono, sempre per privati e imprese: lo School bonus, ovvero un bonus fiscale per gli investimenti privati nelle scuole e lo school guarantee, mirato a premiare l’investimento nella scuola che crea occupazione.

Il governo, poi, intende incentivare i piccoli contributi dei cittadini alle scuole, i microfinanziamenti a progetti innovativi e inclusivi – che chiama, come è in auge, col termine inglese crowdfunding – aggiungendo di suo, un euro per ogni euro (o due non è chiaro) messo dai cittadini.

Come genitori – che da anni versiamo cospicui contributi, impropriamente definiti volontari, per ogni necessità della scuola, dalla carta igienica alle riparazioni dei laboratori, dalla carta per fotocopie ai progetti più vari – abbiamo qualche speranza di veder ripagati i nostri sforzi.

Al di là della terminologia inglese profusa a piene mani, talvolta fino a rasentare il comico per ingenerare un’idea di innovazione in corso, come quando si propone: “Lanceremo in au­tunno il primo hackathon sui dati del Ministero, dalle stanze del Ministero. Sarà organizzato in collaborazione con tutte le comunità che co­struiscono consapevolezza e conoscenza sul valore dei dati aperti. Dobbiamo aumentare la comprensione e l’utilizzo dei nostri dati, perché non esiste trasparenza fine a se stessa, e non si realizzano efficienze senza coinvolgere in maniera credibile studenti e mondo del­la scuola, esperti, cittadini, im­prese, giornalisti. Per l’hacka­thon, a partire dal rilascio di dati del Ministero, in 24 ore si lavorerà – e i nostri ragazzi sa­ranno protagonisti – alla crea­zione di applicazioni: una app, un nuovo servizio ai cittadini, una visualizzazione interattiva. Saranno inoltre coinvolte tante altre amministrazioni, compre­si l’Istat e il Garante per la Pri­vacy. Tutti hanno l’esigenza di fare comprendere i propri dati, le sfide di bilancio, di ammi­nistrazione, di policy. Il MIUR ha il desiderio di coinvolgere i ragazzi in quella che diventerà a regime una Data School na­zionale. Perché lavorare con i dati è una competenza chiave del nostro tempo, e utilizzarli per produrre inchieste, storie, visualizzazioni i modi migliori per applicarla”, in realtà si tratta di tornare a una scuola vecchia con un’esaltazione dei valori nazionali, che si vuol far passare attraverso gli insegnamenti di storia dell’arte e musica, un ritorno al vecchio mens sana in corpore sano, alle tre i (inglese, informatica e impresa) e al tutor della Moratti (qui mentor).

Sotto la patina c’è la vecchia idea di una scuola che si fa impresa. Una scuola aperta e prona, addirittura dipendente economicamente dalle imprese del territorio. Una scuola classista, dove per i più agiati vi saranno licei e università mentre per gli altri il ritorno al vecchio avviamento professionale. Una scuola autoritaria in cui il preside è il dominus incontrastabile.

Eppure, bastava poco per migliorare la nostra scuola: includere nel percorso educativo anche gli asili nido, fare classi di massimo 15 ragazzi, aprire le scuole tutto il giorno per dare un’alternativa e un’opportunità a tanti ragazzini lasciati soli in casa alla balia televisione, garantire un sostegno pieno ai ragazzi diversamente abili, aggiornare ed arricchire i programmi, assecondare i tempi dei bambini. Piccole cose che possono contrastare la dispersione scolastica, garantire un buon successo formativo per poter accedere al lavoro.

Se le imprese, grazie alla “buona scuola” di Renzi, potranno accedere a forza lavoro a costo zero perché dovrebbero assumere nuovo personale?

Ma quel che è più grave è che con questa proposta si va a ledere quello che era il senso di squadra fra gli insegnanti, che da domani per accedere ogni tre anni agli “scatti di competenza” e al salario “accessorio e variabile” per lo svolgimento di ore e attività aggiuntive, saranno l’un contro l’altro armati. Si rompe una comunità a tutto discapito della serenità di bambini e ragazzi.

Non è certamente così che si costruisce la scuola di qualità degli anni 2000.

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