Sinistra in piazza. Il caos, l’incertezza e un barlume di speranza

Consigli non richiesti per una sinistra possibile

ROMA – Gli esponenti di Sinistra Italiana in prima fila alla manifestazione della FIOM, Civati a Napoli per gli Stati generali di Possibile, il Movimento 5 Stelle impegnato in varie iniziative in giro per l’Italia, le comunità islamiche riunite a piazza Santi Apostoli per dire no alla barbarie del terrorismo jihadista che ha sconvolto Parigi e Bamako, capitale del Mali: segniamoci questa data, ricordiamoci di questo 21 novembre 2015 perché quella di ieri è stata forse una giornata di svolta nel lungo e faticoso processo di ricostruzione di un pensiero progressista in questo Paese.

Mentre scrivo queste riflessioni, ricorrono quarant’anni esatti dal ferimento mortale di Piero Bruno, studente dell’ITIS “Armellini” di Roma e militante di Lotta Continua, assassinato a colpi di pistola da un agente di polizia mentre manifestava per il riconoscimento della neonata Repubblica d’Angola, da poco affrancatasi dal barbaro dominio portoghese e già in preda a una guerra civile, non meno barbara, fra le opposte fazioni: da una parte i marxisti dell’MPLA, dall’altra gli anticomunisti dell’UNITA di Jonas Savimbi, i quali, non appena cacciati gli oppressori lusitani, rivolsero le armi gli uni contro gli altri, dando vita ad una mattanza che pare abbia lasciato sul terreno ben otto milioni di mine, oltre ad aver provocato circa un milione di morti e quasi quattro milioni di rifugiati. 

Auspicava un mondo più giusto, Piero Bruno, amava la vita e voleva viverla intensamente, dando un senso alla sua passione politica, al suo coraggio, al suo impegno civile, ai suoi forti ideali antifascisti e al suo sogno di inclusione, di apertura, di coinvolgimento degli ultimi e degli esclusi in un processo di rinnovamento collettivo della società. Era forse un illuso, forse un ingenuo, forse un utopista o forse, più semplicemente, un ragazzo che di lì a poco avrebbe compiuto diciott’anni e invece cadde sull’asfalto di via Muratori, da sempre chiamata “la salitella della morte” per la sua tortuosità e le sue curve a gomito, per il senso di cupezza che trasmette e, da quel giorno, per la tragedia che vi si consumò, in un’Italia allora squassata da tragedie continue, mentre la sinistra commetteva l’errore deleterio di dividersi e l’avanzata del PCI si rivelava quanto mai effimera, destinata a spegnersi e a svanire nel gorgo di lutti del ’77, prima di dissolversi definitivamente davanti al cadavere di Aldo Moro riverso nel bagagliaio della Renault 4 parcheggiata in via Caetani.

Quarant’anni e un cammino interrotto, quarant’anni e la memoria di una generazione che ormai comincia ad avere i capelli bianchi, quarant’anni e il palpabile senso di sconfitta di chi all’epoca ci aveva creduto e poi si è visto tradito, travolto dal pensiero unico, tuttora dominante, del liberismo selvaggio e da un imperialismo neo-colonialista che, unito alla sete di potere, di denaro e di dominio di governanti inadeguati, ha sprofondato il mondo nel baratro di due guerre, quella in Afghanistan e quella in Iraq, delle quali stiamo pagando e pagheremo ancora a lungo le conseguenze.

Quarant’anni e la tristezza di vedere alcuni dei pacifisti e dei militanti della sinistra extraparlamentare di allora divenuti, in seguito, dei convinti guerrafondai; quarant’anni e un pensiero intenso a Enrico Berlinguer, il quale non volle mai venir meno agli ideali della gioventù; quarant’anni e una carezza a Piero Bruno e alla sua famiglia, nella speranza che la sua tragica morte sia servita almeno a non commettere più gli stessi errori di un tempo, a non dividersi, a non lasciarsi coinvolgere dal furore cieco e assassino della violenza fine a se stessa che in quegli anni, fra sassaiole e dita che mimavano la P38, sconvolse una generazione e la condusse ad un’inesorabile sconfitta.

Perché non poteva che finire così, non potevano che perdere quei capelloni che ci credevano, sì, ma non avevano abbastanza visione, abbastanza saggezza politica, abbastanza capacità di discernimento per distinguere gli amici e gli alleati dagli avversari da combattere, che erano giustificati solo dal fatto di essere tanto giovani e inesperti ma che nei decenni successivi, con quel potere che dicevano di odiare e di voler abbattere, non solo sono andati a braccetto ma ne sono diventati, in alcuni casi, i simboli stessi.

Piero Bruno, quarant’anni fa, e il tentativo di immaginare come sarebbe stata la sua vita se fosse ancora qui, con i primi capelli bianchi, i suoi quasi sessant’anni e magari una lunga militanza in Parlamento perché all’epoca, in quella scuola di periferia, veniva data alla politica un’importanza assai superiore a quanta gliene venga attribuita oggi e in quei corridoi, fra una lezione e l’altra, si era formato l’immaginario di un ragazzo che era anche l’immaginario collettivo di una sinistra che non si era ancora smarrita, di una sinistra ancora giovane, ancora idealista, ancora disposta a sacrificarsi, non ancora rinchiusa nei propri schemi frusti e nella propria presunzione, non ancora salottiera e inconcludente, non ancora disposta a scendere a qualsiasi compromesso pur di provare a vincere, non ancora falsa, non ancora venduta e sconfitta dalla sua paura di essere se stessa prim’ancora che da avversari oggettivamente ricchi, potenti e disposti a tutto pur di gestire il potere e mantenerlo nel tempo.

Piero Bruno non voleva diventare “quel potere”: lo voleva combattere con intelligenza, con lo sguardo ancora colmo d’incanto di un adolescente cresciuto in una città e in una fase storica nella quale non era raro che i cortei, tanto di destra quanto di sinistra, finissero in tragedia, con ragazzi di vent’anni distesi a terra mentre intorno a loro infuriava una guerriglia che non si vedeva, in Italia, dagli anni della Resistenza.

Ma perché questa storia, questo ricordo così appassionato di una figura che, in fondo, alle giovani generazioni non dice quasi niente? Innanzitutto, perché è giusto cominciare a combattere l’“Alzheimer culturale” del quale siamo vittime, ripercorrendo i viali e i sentieri della storia affinché molti la smettano di pensare che nel ’45 i partigiani scesero dai monti e nel 2014 è arrivato Matteo Renzi, con intorno il vuoto, il nulla, in una dimensione astorica del tutto irreale e per nulla rispondente a come sono andate effettivamente le cose. In secondo luogo, perché questo ragazzo che manifestava in difesa dei diritti e dei sogni di libertà di un popolo africano si cala alla perfezione nel contesto attuale, mentre la sinistra cerca di ritrovare un senso e una ragione di esistere e le comunità musulmane scendono in piazza non per scusarsi, non avendo nulla per cui chiedere scusa, ma per mostrare a tutti il volto bello, pacifico e culturalmente straordinario di una religione che non c’entra niente con l’ideologia malata, distorta e criminale degli attentatori di Parigi e di Bamako. Infine, perché è in vicende come quella di Piero che dobbiamo ritrovare il significato della nostra passione e della nostra militanza, ponendoci l’obiettivo di farlo conoscere a chi allora non c’era e a chi se n’è dimenticato, a chi ci credeva e non ci crede più e anche a chi di quella storia è stato parte e poi se l’è messa sotto i piedi.

Ribadisco: non mi scorderò mai di quella giovane deputata stellina che chiedeva ai colleghi del PD di rimuovere il nome di Berlinguer dalla propria sala riunioni alla Camera. Lei Berlinguer non l’ha conosciuto ma se l’è letto veramente; altri l’hanno conosciuto e, a suo tempo, hanno pianto con commozione ai suoi funerali in piazza San Giovanni, salvo poi diventare “quel potere”, con tutti gli aspetti deleteri e negativi che esso rappresentava e rappresentava tuttora.

Una giornata di speranze, nel segno della memoria e della proposta: questo è il bilancio della giornata di ieri e così è bene ricordarlo.

Due piazze romane: una per difendere il lavoro, i diritti, la pace e la libertà di tutti i popoli; l’altra per ribadire il principio universale della fratellanza, messo in discussione, sia pur in forme diverse, tanto dagli assassini del Bataclan quanto dai razzisti, xenofobi e cialtroni, di un Occidente in guerra con se stesso e ormai privo di un’identità compiuta.

Finché non capiremo, infatti, che oggi l’unica ideologia possibile è l’Europa, che la costruzione di un progetto europeo dev’essere la nostra ragione di vita e il motore stesso del nostro impegno, finché non ci adopereremo con passione e generosità per costruire un’Unione politica degna di questo nome, capace di coniugare sicurezza e diritti, pace e libertà, giustizia e welfare, con una moneta unica che smetta di essere una gabbia e torni ad essere un ponte fra popoli che fino a settant’anni fa si sparavano addosso da opposte trincee, finché non riannoderemo i fili della memoria e non coniugheremo al presente la lezione inascoltata di chi ha dato la vita per quel sogno che oggi sta andando in frantumi, non saremo in grado di prevenire né la barbarie di Parigi né il senso di repulsione che genera nei cittadini il concetto stesso di Europa.

L’Europa come ideologia comunitaria, l’Europa come valore imprescindibile, l’Europa come filo rosso che lega e tiene insieme le varie generazioni: questa dev’essere l’elaborazione culturale matura di una sinistra che non voglia essere mera testimonianza, di una sinistra radicata e popolare ma capace di indicare alla propria gente un orizzonte più vasto, una prospettiva, una meta ideale verso cui tendere.

A tal proposito, guardo con profondo interesse a ciò che è avvenuto ieri a Napoli con la costituzione di Possibile, il movimento/partito di Pippo Civati, e a ciò che sta avvenendo in queste ore in Toscana, dove il Movimento 5 Stelle locale si è riunito, insieme all’onorevole Chimienti, la ragazza che citò Berlinguer, e alla senatrice Montevecchi, per parlare di scuola e progettare insieme ai propri attivisti un modello d’istruzione che restituisca ai ragazzi il piacere di studiare, di conoscere, di capire, di andare al di là di ogni conformismo, di combattere ogni pregiudizio, di crescere liberi e di trasformarsi da sudditi in cittadini, riscoprendo la bellezza e l’attualità del discorso di Piero Calamandrei in difesa della scuola pubblica.

Una sinistra che parla di lavoro; una sinistra che nasce con dentro tanti ragazzi che neanche sanno chi fosse Piero Bruno, che non hanno vissuto il crollo delle ideologie novecentesche, che si sono appassionati alla politica nonostante molti dicessero loro di lasciar perdere e che ci credono davvero, con la stessa passione e lo stesso orgoglio dei coetanei di Piero in quegli anni Settanta che ormai vivono solo sui libri di storia e nelle testimonianze dei reduci; un movimento a lungo incompreso e oggi più che mai strutturato e costruttivo che propone un programma, ad esempio per quanto riguarda la scuola, per il quale non possiamo fare altro che ringraziarli e riflettere su quante volte abbiamo puntato stupidamente il dito senza nemmeno conoscerli; una comunità religiosa aperta ed inclusiva che spedisce ai seminatori di odio e di morte un messaggio assai più incisivo delle inutili bombe di Hollande: non ci rappresentate, anzi ci fate schifo perché noi vogliamo vivere in pace e fornire il nostro contributo per rendere migliore la società in cui viviamo. 

Un week-end, varie città e una conclusione quasi scontata: solo l’unione di questi mondi diversi ma complementari, che ancora, chissà perché, si guardano in cagnesco ma sostanzialmente condividono le stesse idee e gli stessi valori, può restituire un futuro ad un Paese che, altrimenti, ha come alternative l’eterno ritorno del sempre uguale, in un trionfo di gattopardismo e conservazione dell’esistente ammantato di nuovismo e proclami rottamatori, e le urla rabbiose di piazze e sale congressi colmi di livore distruttivo. 

Nel ’75, la sinistra credeva di essere pronta a vincere e a governare l’Italia, si illudeva di essere all’apice del consenso e invece si smarrì, vittima delle proprie contraddizioni, dando inizio a una diaspora che ha generato solo disastri, inconcludenza e un pensiero via via sempre più debole e infine svanito del tutto di fronte all’avvento dell’“uomo nuovo” di Rignano (nato, guarda i casi della vita, proprio nel ’75), le cui idee altro non sono che la riproposizione di vecchissime ricette già ampiamente fallite ad ogni latitudine. 

Dare un senso a questa storia e portarla al governo è, dunque, un imperativo morale: lo dobbiamo alla memoria di Piero e alle prospettive dei tanti ragazzi di oggi che, nonostante il caos, l’incertezza e lo stato di disperazione permanente in cui sono costretti a vivere, hanno deciso di ribellarsi pacificamente, facendo politica, a un destino di solitudine e di vuoto che molti considerano ineluttabile ma non lo è. Dipende da noi.

 

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