Renzi-Juncker: l’incontro di due debolezze

ROMA – Non è nostra intenzione dare addosso a Renzi sempre e comunque, qualunque cosa dica o faccia, anche perché sulla questione dei migranti, tanto per citarne una, ha ragione lui e lo stesso Juncker, ospite venerdì scorso a Roma, è stato costretto ad ammettere che l’atteggiamento di quei paesi europei che stanno sospendendo in maniera unilaterale Schengen è inqualificabile.

E ha dovuto ammettere anche che bisognerà rivedere l’accordo di Dublino perché proprio non funziona, probabilmente non ha mai funzionato, e oltretutto scarica sulle nazioni più fragili e in difficoltà tutto il peso di un’emergenza che l’Europa può fronteggiare solo rimanendo unita e recuperando i valori della solidarietà e della coesione sociale.

E qui si chiude la parte positiva e inizia l’ampia parentesi negativa, almeno per Renzi, del viaggio a Roma del presidente della Commissione europea. Checché ne dicano i trombettieri, i turiferari e i giannizzeri al seguito, nel PD e in una parte della stampa, il colloquio fra i due è stato infatti tutt’altro che chiarificatore. Diciamo che si sono confrontate due debolezze e, visti i tempi, al pari dei pugili quando sono a corto di fiato e di energie, hanno preferito abbracciarsi al centro del ring, serrando i pugni nella speranza di ritrovare le forze per assestare all’avversario il colpo del KO.
Il guaio è che né l’uno né l’altro sanno a chi darlo questo benedetto cazzotto, per il semplice motivo che Juncker sa di non poter fare a meno dell’Italia (paese fondatore, troppo grande per fallire, con investimenti sparsi in tutto il mondo e un’economia in affanno ma comunque indispensabile per tenere a galla la nave europea, se non altro per i copiosi contributi che le garantisce ogni anno) e Renzi, al netto delle sparate propagandistiche che servono unicamente a contenere l’avanzata delle cosiddette forze anti-europeiste, e dunque sono benedette innanzitutto dai vertici di Bruxelles, sa benissimo che senza l’Europa la nostra sarebbe una zattera alla deriva, con un’autonomia di qualche mese al massimo.
Pertanto, quello di venerdì è stato il mesto ritrovo di due uomini obbligati a fare i conti con i propri fallimenti e le proprie numerose contraddizioni, in quanto sulla Grecia hanno commesso entrambi un drammatico errore ed entrambi devono fronteggiare i rispettivi falchi, i quali da una parte hanno le sembianze dei paesi del Nord e dell’Est Europa e dall’altra quelle di alleati imbarazzanti che condizionano, con il proprio populismo e con l’assurda pretesa di veder attuato per intero il proprio programma elettorale, un esecutivo che già di per sé non è restio ad assecondare la pancia e gli istinti più bassi dell’elettorato.
Non a caso, la preoccupazione dei partner europei si è appuntata proprio sul fisco, sull’elevato debito pubblico, sull’inspiegabile abolizione tout court della TASI, che beneficia anche coloro che potrebbero permettersi di pagarla, e su richieste di flessibilità che non servono a favorire nuovi investimenti e, dunque, ad incentivare la crescita e lo sviluppo del Paese bensì a coprire le mance elettorali del premier e a garantirgli la sopravvivenza alle Amministrative e, soprattutto, la vittoria che egli auspica nel referendum costituzionale d’autunno, dal quale dipendono le sorti della sua carriera politica.
Al che si comprende meglio quale sia la posta in gioco e il perché dei toni tutto sommato morbidi da parte dello stesso plotone d’esecuzione che la scorsa estate ha costretto Tsipras alla resa: Renzi non lo stimano affatto, i suoi modi di fare sono ritenuti fastidiosi e arroganti ma mentre il presidente greco è visto come il fumo negli occhi, in quanto è un uomo il cui intento è quello di provare a modificare sul serio lo status quo liberista del Vecchio Continente, Renzi ai tecno-burocrati che fanno il bello e il cattivo tempo va benissimo, in quanto è arcinoto che alza la voce solo davanti ai microfoni e alle telecamere dei giornalisti italiani, salvo poi eseguire pedissequamente gli ordini e mettersi a rimorchio della Merkel quando si tratta di discutere ai tavoli nei quali si decidono le sorti dell’Europa. Oltretutto, il quadro politico italiano non offre alcuna garanzia, con una destra estrema e lepenista che intende mettere in discussione i capisaldi della comunità europea, compresi quelli positivi sanciti dai padri fondatori, e un movimento che vorrebbe contrastare sul serio i dogmi dell’austerity, dunque va tenuto fuori dalla stanza dei bottoni ad ogni costo.
Pertanto, Renzi non piace ma al momento, questo è il ragionamento di Juncker e degli altri membri della Commissione europea, non esistono alternative credibili: e allora vada per la flessibilità, passi lo smantellamento della Costituzione che piace tanto alla JP Morgan e di sicuro non dispiace al fascistume sparso per l’Europa, si faccia buon viso a cattivo gioco quando l’uomo di Rignano esonda e ricopre di contumelie la stessa Commissione, si stenda un velo pietoso sui suoi rapporti, ormai tutt’altro che positivi, con la Mogherini, della quale proprio lui aveva caldeggiato la nomina a commissario agli Affari esteri, si speri che Moscovici e Padoan trovino un’intesa accettabile sui conti pubblici italiani e si chiuda un occhio anche su un debito pubblico esorbitante e su una propaganda stucchevole, destinata a nascondere i dati reali secondo cui la crescita è anemica e, quel che è peggio, non strutturale.
Meglio un cattivo governo amico che un buon governo ostile ai nostri interessi: questa è la linea di Juncker e, probabilmente, anche della Cancelliera.
Gli americani, con il pragmatico cinismo di cui sono capaci, direbbero: “È un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”, quindi deve essere sostenuto e coperto. Tanto a rimetterci, nel caso in cui le cose dovessero andar male e la situazione dovesse diventare insostenibile, saremmo solo noi italiani.

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