Riforma sui beni confiscati: poca luce e molte ombre

ROMA – Era il 7 marzo 1996 quando, in Italia, entrava in vigore la legge n. 109 riguardante l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie. Una legge con poche luci ed molte ombre ma che ha rappresentato comunque un segnale positivo nella lotta al crimine organizzato, poiché finalmente i beni confiscati alle mafie venivano restituiti alla collettività.

 Il fenomeno dei sequestri e delle confische nell’ultimo decennio è in crescita esponenziale ed è quindi assolutamente urgente rivedere la normativa vigente per adeguarne gli strumenti in modo da rendere concreto e operativo lo spirito della avveniristica legge “La Torre”. A mio giudizio, l’Agenzia per i beni confiscati è debole, la struttura è insufficiente in quanto mancano le necessarie professionalità “ad hoc” e urge approvare la riforma già passata all’esame della Camera e attualmente all’esame del Senato. Le lacune non sono poche. Una delle più evidenti è quella di verificare che fine fanno i beni mafiosi una volta che sono stati loro portati via. Un ulteriore aspetto sul quale occorre incidere con forza è di evitare, come non poche volte è avvenuto, che i beni confiscati ricadano nelle mani delle associazioni criminali.

Dagli ultimi dati del Viminale sono circa 18 mila i beni confiscati alle mafie. Un patrimonio gigantesco sul quale è bene che si legiferi presto riformando l’intero sistema che riguarda sequestri, confische e la loro gestione presente e futura. Ritengo che per una nuova legge, efficace e seria, è necessario evitare gli errori emersi in questi anni (cfr. caso Saguto), potenziando i controlli e la trasparenza. Il percorso giudiziario ed extragiudiziario deve inoltre assolutamente garantire che per le aziende sequestrate e confiscate non si perda il requisito essenziale della produttività e della continuità aziendale. In buona sostanza, nei casi in cui bisogna vendere si deve farlo subito, in caso contrario, bisogna immediatamente mettere in produzione l’attività aziendale. Sposo totalmente la critica del dottor Maresca della DDA di Napoli il quale ha evidenziato come rischiano di fallire circa duemila imprese ma il fondo di garanzia previsto dalla riforma del codice antimafia e dalla legge di stabilità preveda solo dieci milioni, come dire cinquemila euro ad azienda, quindi, un’inezia. Un ulteriore aspetto da considerare con molta oculatezza è il rapporto tra banche e beni confiscati. Occorre un organo di controllo imparziale (ad es. Authority) che si occupi delle aziende sequestrate e confiscate sia prima che dopo, per monitorare quale sia l’utilizzo finale delle imprese confiscate. Tra il sequestro e la confisca, inoltre, non possono decorrere tempi biblici (dai cinque ai dieci anni). Se l’immobile deve essere venduto subito per fare cassa, evitandone il deprezzamento questo fa fatto senza se e senza ma. Se dovesse ricomprarselo il circuito delle associazioni criminali accertato il fatto lo si sequestra nuovamente. Sia chiaro che l’uso sociale deve restare una delle scelte auspicabili ma non può essere l’unica possibile. Quando lo Stato si sostituisce alle mafie deve farlo in maniera efficace ed impeccabile garantendo almeno ciò che illecitamente garantivano le associazioni criminali ma in questo caso con il requisito della legalità e del rispetto dei diritti fondamentali.  

Condividi sui social

Articoli correlati