Mostra del cinema. Una Venezia insolita e bellissima

Se il presidente della giuria Sam Mendes avesse commesso l’errore di premiare gli attesi e ormai celebri “La la land” di Daniel Chazelle e “Jackie” di Pablo Larraín, si sarebbe anche potuto chiudere il festival di Venezia (giunto alla settantatreesima edizione) e ambientare in Laguna una bella sfilata di moda.

La Mostra del cinema, infatti, non è il Nobel per la Letteratura che, per sua natura, dovrebbe essere assegnato alla carriera e, dunque, veder premiati quegli scrittori che con le proprie opere hanno illuminato, donato qualcosa e reso migliore l’umanità: cosa che non sempre avviene e che, talvolta, ha fatto la fortuna di autori sulla cui grandezza mi permetto di obiettare, specie se si considerano le straordinarie figure del passato che sono state insignite con questo riconoscimento.

La Mostra del cinema di Venezia, al contrario, serve, da sempre, anche a far conoscere e a valorizzare opere che altrimenti non andrebbero al di là del cinema d’essai, dei cine-forum per amatori e dei ritrovi di intellettuali che, al netto del loro valore intrinseco, hanno il più delle volte il vizio di essere dannatamente autoreferenziali.

Pertanto, ben venga la scelta di premiare “The woman who left” del filippino Lav Diaz: un film di quasi quattro ore, per giunta in bianco e nero, che merita senz’altro un incoraggiamento, non essendo certo un’opera semplice né digeribile al pari di un cine-panettone.

E bene anche, e qui c’è un pizzico di orgoglio italiano, al termine di una rassegna che ha visto i nostri tre film in gara soccombere, il premio Orizzonti assegnato a “Liberami” di Federica Di Giacomo, con l’auspicio che la nostra cinematografia possa ritrovare al più presto quel respiro internazionale che l’ha resa famosa nei decenni d’oro.

Se c’è una critica che è giusto muovere ai nostri produttori, attori e registi, difatti, è proprio quella di produrre film che difficilmente varcano i confini nazionali, a dimostrazione che manca loro un respiro universale, un messaggio che possa essere compreso e apprezzato anche al di là delle Alpi, la capacità di farsi strada in contesti diversi da quello casalingo, dove certe tematiche sono vissute in prima persona e dunque sentite e partecipate con un’intensità che altrove, naturalmente, viene meno. 

Bisognerebbe prendere esempio dal già citato “Jackie” (insignito del premio per la miglior sceneggiatura), tanto per dire, dove Nathalie Portman regala un’interpretazione che le è valsa la Coppa Volpi della donna che era accanto al presidente Kennedy nel drammatico giorno di Dallas: una figura conosciuta in tutto il mondo, nota per l’eccezionalità e per il declino, per i suoi uomini e per il suo eroismo spontaneo; una figura che commuove e coinvolge da qualunque angolo visuale la si guardi, senza scadere in una stucchevole esterofilia, e alla quale dovremmo ispirarci per produrre opere dello stesso taglio, al fine di ritrovare un posto in prima fila in un settore che ci ha visto a lungo protagonisti, apprezzati ovunque e, in particolare, oltreoceano.

Tornando ai riconoscimenti, il Gran premio della giuria è andato ad “Animali notturni” di Tom Ford mentre il Leone d’argento per la regia è stato attribuito, ex aequo, ad Andrei Konchalovsky per “Paradise” e al messicano Amat Escalante per “La región salvaje”. E se la ventisettenne americana Emma Stone vince la Coppa volpi per la sua interpretazione in “La la land”, Oscar Martínez si aggiudica il medesimo premio al maschile per “El ciudadano ilustre” di Mariano Cohn e Gastón Duprat. 

Premio Speciale della giuria ad Ana Lily Amirpour per “The bad batch” e premio Mastroianni per la miglior interpretazione di un giovane emergente all’attrice tedesca Paula Beer, protagonista di “Frantz” del francese François Ozon.

Una Venezia sorprendente ed insolita, quindi, ricca di sorprese e carica di fascino, che ha aperto i battenti sottotono a causa della tragedia del terremoto che ha sconvolto il Centro Italia e ha chiuso con le luci di sempre, facendo calare il sipario su un’edizione che ci ha detto molto sulle nuove tendenze del cinema globale, sul bisogno di individuare nuovi soggetti e sulla necessità di narrare storie che graffino l’anima e penetrino nel profondo degli spettatori, coinvolgendo il loro vissuto, le loro speranze e le loro aspettative.

Una Mostra ibrida: la prima in cui la platea non si è accontentata semplicemente di guardare e valutare ma ha chiesto, invece, di entrare nel vivo dei film, come se, per utilizzare un’espressione politica che tuttavia calza a pennello anche in questo contesto, all’improvviso democrazia rappresentativa e democrazia diretta avessero deciso di prendersi per mano.

Una Mostra, in conclusione, che proietta Venezia e la cinematografia mondiale nel futuro, a dimostrazione che il Ventunesimo secolo è davvero iniziato anche in questo campo.

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