Shimon Peres, una vita al servizio della pace

È sempre difficile raccontare la vita di un uomo che ha attraversato un intero secolo e ricoperto tutti i ruoli principali nella politica israeliana. 

Polacco d’origine e di nascita, tanto che il suo vero cognome era Perski, si trasferì in Israele a soli undici anni, probabilmente perché la famiglia aveva fiutato il clima irrespirabile che stava avvelenando l’Est europeo, fra i pogrom e quell’anti-semitismo feroce, sanguinario e indegno che avrebbe prodotto la carneficina dai campi di sterminio, il più famoso dei quali era situato proprio in Polonia. 
Militare, allievo di Ben Gurion e protagonista, nel contesto dell’Haganah (nucleo delle future Forze di Difesa israeliane), del conflitto del ’48, dal quale sarebbe emersa la mai risolta e purtroppo sempre più drammatica questione palestinese, iniziò la propria carriera politica nel ’59, con l’elezione alla Knesset nelle file del Partito Mapai, mentre, nel ’68, fu uno dei fondatori del Partito Laburista israeliano, le cui punte di diamante, oltre a lui, sono state Golda Meir e il suo grande rivale, quell’Yitzhak Rabin che ebbe tuttavia un’influenza fondamentale sulla sua formazione umana e politica.

Peres, infatti, non nacque pacifista: tutt’altro, al punto che nei primi decenni della sua avventura militare e politica era considerato un falco, in sintonia con la filosofia espansionista di Ben Gurion e di Moshe Dayan, protagonista della Guerra dei sei giorni del ’67 e della Guerra del Kippur del ’73.

Fu l’incontro-scontro con Rabin a fargli maturare, nella seconda parte della vita, quelle posizioni diplomatiche, di mediazione e di attenzione al dialogo interreligioso, al confronto e al rispetto delle ragioni degli altri, e dei palestinesi in particolare, che nel ’94 lo hanno portato al massimo riconoscimento mondiale del suo impegno: il Nobel per la Pace, insieme allo stesso Rabin e a Yasser Arafat, in seguito alla positiva conclusione degli Accordi di Oslo del ’93.

Tralasciamo adesso ogni polemica su ciò che è avvenuto nei ventitré anni successivi e sul fatto che quegli accordi, al pari di quelli raggiunti sette anni dopo a Camp David da Barak e ancora da Arafat, non sono mai stati davvero rispettati; tralasciamo gli esiti catastrofici della prima e, soprattutto, della seconda Intifada, quella del 2000, scoppiata circa due mesi dopo il vertice promosso da Clinton e mai veramente conclusasi nei successivi quindici anni, essendo venute a mancare due figure autorevoli e di prestigio quali Rabin, assassinato da un fondamentalista israeliano il 4 novembre del ’95, e Arafat, morto in circostanze misteriose, con un sospetto avvelenamento da polonio, l’11 novembre del 2004. Era rimasto solo lui, Peres, che a quasi ottantaquattro anni venne eletto presidente della Repubblica e dedicò ben sette anni della sua vita a tentare di ricucire una tela strappata e devastata da troppi rancori stratificatisi nel tempo nonché dalla concezione guerrafondaia, estremista e priva di ogni umanità del falco Netanyahu.

La sua ultima, stupenda immagine pubblica lo ritrae accanto a papa Francesco, al leader palestinese Abu Mazen e al patriarca ortodosso Bartolomeo I, nel giugno del 2014, in occasione di un incontro di di preghiera fra le tre grandi religioni monoteiste promosso dal pontefice, al fine di riattivare quel processo di pace e di concordia fra i popoli prontamente spezzato, ancora una volta, dalla reazione spietata del primo ministro israeliano all’assassinio di tre ragazzi ebrei ad opera, a suo dire, di membri di Hamas. Da lì sono derivati l’assedio e la carneficina di Gaza: una strage senza assolutamente ingiustificabile, con numeri spaventosi e una sproporzione disumana, anche se, purtroppo, non sorprendente per chi conosce la biografia di Netanyahu. 

Raccontare la storia e la vita di Shimon Peres equivale, dunque, a narrare la storia, politica, civile e militare, di Israele nell’ultimo secolo, con le sue guerre, i suoi abissi, i suoi pregiudizi, le sue speranze, il suo incedere tra mille tormenti, i suoi muri, i suoi errori e l’orgogliosa rivendicazione di essere l’unica compiuta democrazia dell’area mediorientale.

Tuttavia, significa anche approfondire la vicenda di un visionario, di un sognatore convertito alla causa della pace dopo una giovinezza dal piglio guerresco, di un pragmatico che ha saputo coniugare idealismo e pratica politica, in una perfetta miscela di competenza, prestigio nazionale e internazionale e saggezza nelle scelte e nelle prese di posizione. 

Un uomo che ha commesso pure degli errori, alcuni gravi, altri meno, ma senza mai smarrire il valore e supremo dell’umanità. Per questo non è retorico asserire che da oggi il mondo è più povero, la causa della pace in Medio Oriente più sola e lo scenario politico globale più fragile, essendo venuto a mancare un personaggio (l’ultimo dei tre premi Nobel del ’94) del quale non si poteva non subire il fascino e la grandezza, anche quando si era in dissenso con le sue idee.

Roberto Bertoni

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