JFK e la frontiera che non si aprì

Era il 22 novembre 1963, il drammatico venerdì di Dallas e quella storia la conosciamo tutti: gli spari, la morte al Parkland Memorial Hospital, i sospetti sui possibili assassini, i funerali con John John che compie il saluto militare di fronte alla bara del padre, la sepoltura nel cimitero di Arlington e tutto ciò che è conseguito a quella tragedia. 

Una cosa è certa: l’affetto e la profonda stima nei confronti di John Fitzgerald Kennedy sono dovuti, soprattutto, alla sua tragica fine, in quanto non ha avuto il tempo di sfiorire, di perdere la bellezza della gioventù, di deludere, di tradire e di subire il contrappasso della sconfitta, dunque rimane una sorta di eroe immortale che, a cinquantaquattro anni di distanza, occupa ancora un ruolo di primo piano nell’immaginario collettivo dei progressisti occidentali.

JFK, tuttavia, è stato molto di più: si definiva “un idealista senza illusioni”, guardava al domani ma in cuor suo sapeva che quella “nuova frontiera” che avrebbe voluto spalancare, con ogni probabilità, sarebbe stata ostacolata. E così fu, al netto delle passioni e delle speranze che aveva suscitato, ben al di là dei confini americani, ben al di là dei confini politici, ben al di là di qualunque confine, al punto di trasformarsi già in vita in una sorta di icona pop di dimensioni planetarie. E lo fu più di Obama, molto di più, per il semplice motivo che Obama ha incrociato una stagione di lacrime e di decadenza, di crisi, di recessione mondiale e di paura per il futuro, pertanto il suo tentativo di suscitare una speranza sostanzialmente non è riuscito, come purtroppo si è visto lo scorso 8 novembre con l’elezione di Trump. Obama ha avuto il tempo di fallire, di deludere e di sbagliare, Kennedy no. E prima di lui, anche Clinton ha avuto il tempo di tradire, di commettere una messe di errori e di farsi ricordare, più che altro, per la pericolosa deriva liberista che ha portato avanti nel solco della Reaganomics e per la dannosa pioggia di bombe contro la Serbia da cui è scaturita la radicalizzazione che oggi induce molti musulmani di quella regione a recarsi nel Siraq per arruolarsi nelle file dell’ISIS.

Kennedy, benché eletto con alcuni voti poco limpidi e pur essendo stato protagonista di alcuni colossali abbagli come il tentato golpe contro Cuba alla Baia dei Porci, è stato soprattutto il presidente del grido di Berlino contro il Muro sovietico, il presidente che diede l’impulso decisivo nella corsa alla luna, il presidente che inviò l’esercito contro il governatore dell’Alabama Wallace, peraltro democratico, per consentire a due studenti di colore di iscriversi all’università e, in conclusione, il presidente che più di ogni altro ha incrociato e saputo accompagnare, innervare e trasformare in proposte politiche concrete il clima di fiducia e d’entusiasmo che si respirava in quegli anni. 

Senza Kennedy, quasi sicuramente, non avremmo avuto il Civil Rights Act di Johnson, il successo delle marce del reverendo King e nemmeno le svolte e i progressi successivi, compresa la presidenza di Barack Obama. 

Del resto, lo amiamo anche per questo: perché è stato il promotore di sogni che, a causa di quel maledetto giorno di Dallas, non ha visto sbocciare, perché ha gettato i semi per il domani, perché ha saputo andare al di là di se stesso e delle proprie convenienze personali e, infine, perché è stata l’ultima, vera bandiera di riscossa di un Occidente che, dopo di lui, si è avviato verso un lento e inesorabile declino, perdendo il gusto dell’utopia, la passione civile, il senso di comunità, l’amore per il prossimo e il desiderio di sporgersi oltre l’orizzonte, caratterizzato da un’insaziabile curiosità per il futuro e per ciò che esso ci riserverà. 

Un idealista senza illusioni, un utopista, il narratore concreto e neanche troppo cinico di una storia americana e mondiale ma, più che mai, il simbolo, di ciò che avrebbe potuto essere e, invece, dopo la sua morte, non è stato: questo era JFK e per questo, nel giorno in cui avrebbe compiuto cento anni, lo ricordiamo con commozione, con nostalgia e, a voler essere sinceri, anche con un pizzico di disperazione.

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