Macron: un monarca repubblicano fra prospettive e dubbi

 Ha vinto ampiamente, il che era previsto da tutti gli istituti demoscopici, e non dovrà pertanto sottoporsi a nessuna fastidiosa, quanto in questo caso pressoché improponibile, coabitazione con eventuali alleati. Ha modificato radicalmente il panorama politico francese e fra cinque anni sapremo se sarà stato un bene o un male.

Non ha ammazzato i vecchi partiti su cui per oltre mezzo secolo si è imperniata la Quinta Repubblica, e chi asserisce il contrario dimostra di peccare della classica  esaltazione provinciale che si scatena nel nostro Paese ogni qualvolta compare sulla scena internazionale un qualunque leader in grado egemonizzare culturalmente la scena politica del proprio paese. Ha annunciato riforme sostanziali del mondo del lavoro e altre, non meno incisive, riguardanti l’assetto istituzionale, e nei prossimi mesi sapremo se riuscirà a mantenere le tante promesse formulate in campagna elettorale oppure no. Una cosa, tuttavia, è certa e non depone a suo favore: questo monarca repubblicano, a metà fra un giovane condottiero e un aspirante Napoleone, con tutta la Francia ai piedi a causa dei fallimenti a catena dei suoi predecessori, dunque scelto più per sottrazione e per disperazione che non per effettiva convinzione, avrà presto le piazze contro. E saranno piazze infuocate, feroci, cariche di rabbia e, forse, d’odio, in un Paese già squassato dal terrorismo, dalla paura e da una convivenza civile fattasi via via sempre più difficile, al punto che il Front National, per quanto ridotto ancora una volta ai minimi termini dal peculiare sistema di voto transalpino, costituisce comunque un elemento strutturale del quadro politico dell’Esagono. 

A tal proposito, ci auguriamo che, fra le tante riforme annunciate, Macron metta subito in cantiere quella concernente l’introduzione di una quota proporzionale nel rigido maggioritario a doppio turno che tanti improvvisati personaggi da noi anelano, senza rendersi conto di quanto non sia adatto ad una fase politica, sociale ed economica come l’attuale. 

Non hanno capito, evidentemente, che in un mondo in cui le multinazionali, la finanza e pochi poteri oligarchici contano ormai più dei governi e degli stati stessi, o si riesce a restituire ai cittadini la sensazione, anzi direi la certezza, che il proprio voto abbia ancora un senso o si continuerà ad assistere ad una disaffezione come quella che abbiamo visto all’opera nel secondo turno delle Legislative francesi, con quasi il sessanta per cento degli aventi diritto che è rimasta a casa. E a rischio, come pare aver capito il novello Napoleone in quota Rothschild, non c’è la sorte di questo o di quel leader ma il destino del concetto stesso di democrazia, la quale, senza un adeguato rapporto fra rappresentanza e governabilità, con la seconda che deve sempre e comunque derivare dalla prima e mai prescinderne, rischia di inaridirsi fino a condurre all’Eliseo o in un qualunque altro palazzo presidenziale figuri che mai vorremmo vedere nella stanza dei bottoni. 

Se c’è una lezione da trarre da questo voto francese è, dunque, che il semi-presidenzialismo gaullista non è affatto un modello da seguire: non arriviamo a dire, come Mitterrand, che si tratti di un “colpo di Stato permanente” ma di sicuro è un sistema escludente, quindi l’opposto di ciò che serve oggi per ricreare un minimo di connessione sentimentale fra il popolo e i suoi rappresentanti. 

E fra cinque anni, questa almeno è la nostra sensazione, scopriremo anche che va bene la società civile, va bene il nuovo, va bene l’Inno alla gioia nella suggestiva cornice del Louvre, va bene la spregiudicatezza, va bene il coraggio, va bene la narrazione individuale, va bene tutto, ma senza grandi partiti di massa, aperti, plurali e in grado di coniugare le ambizioni dei singoli con gli interessi della comunità nel suo insieme, nessun paese può farcela. Nemmeno se, come la Francia, ha da sempre una certa tendenza al cesarismo democratico.

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