Marilyn Monroe: la tristezza di una diva vittima di se stessa

Con il dolore ancora vivo per la scomparsa di Jeanne Moreau e Sam Shepard, simboli della grande tradizione artistica francese e americana del Novecento, rendiamo omaggio a quella che senza dubbio è stata la più grande diva del Ventesimo secolo: Marilyn Monroe. 

Norma Jeane Mortenson Baker Monroe, il cui doppio nome venne scelto dalla madre in onore di Norma Talmadge (di cui ricorre il sessantesimo anniversario della scomparsa), icona del cinema muto degli anni venti, e di Jean Harlow (di cui ricorre l’ottantesimo anniversario della scomparsa), attrice simbolo dell’America degli anni Trenta, morta prematuramente a causa di una nefrite acuta e da molti considerata l’antesignana proprio di Marilyn, nacque a Los Angeles il 1° giugno del ’26 e se ne andò, in circostanze mai davvero chiarite, il 5 agosto del ’62, a soli trentasei anni, vittima, a quanto pare, di un’overdose di barbiturici.

Tutto nella vita di Marilyn è stato esagerato e sbagliato: la bellezza eccessiva, le violenze subite da bambina, il precoce successo, la fama internazionale conquistata grazie alla partecipazione ad alcune delle commedie più importanti e significative degli anni Quaranta e Cinquanta, i ritardi, i matrimoni, ben tre, le cadute, le faticose risalite e infine la conclusione di un’esistenza sostanzialmente tragica, nella quale gli unici lampi di gloria sono stati a beneficio dei riflettori, dunque effimeri e, per lo più, fittizi. 

Marilyn Monroe era, di fatto, una donna sola e triste: ammirata per il suo fascino e per la perfezione del suo corpo ma, al tempo stesso, irrisa da molti per la sua fragilità nervosa ed emotiva, per la sua immaturità, per la sua scarsa cultura e per il suo essere una donna-oggetto, utile da esibire per far soldi ma alla quale nessuno ha mai voluto realmente bene, eccetto il campione di baseball Joe Di Maggio, ossia colui che, quando morì, si preoccupò di farle cambiare tre volte alla settimana il mazzo di rose rosse davanti alla lapide, per testimoniarle un amore puro, profondo, inarrivabile, certo non condiviso dalla miriade di uomini che, al contrario, l’ha sempre considerata alla stregua di un passatempo.

Di Marilyn e della sua sinuosa meraviglia si sono sempre approfittati tutti, fino a quando la star non ce l’ha fatta più, schiacciata dal peso di un gioco più grande di lei, dall’inseguimento di una felicità impossibile da raggiungere, dal dolore per una vita che considerava ormai una prigione e da un feroce senso di sconfitta, dovuto al fatto che, pur avendo ottenuto ciò cui forse aspirava all’inizio, si era resa ampiamente conto che i ritmi e le caratteristiche di Hollywood l’avevano distrutta moralmente e privata di quei beni immateriali di cui ciascuno di noi, compresi i più cinici, avverte il bisogno.

E Marilyn non era cinica: era solo profondamente ingenua e dannatamente incapace di accorgersi di essere circondata da uno stuolo di profittatori che, alla sua morte, non ha versato una lacrima; anzi, forse ha tirato un sospiro di sollievo.

Fu vittima di se stessa e alla fine, disperata, scrisse: “Io sento che la vita s’avvicina, quando tutto ciò che voglio è morire”. 

Oggi riposa a Westwood, al 1218 del Wilshire Boulevard, in un piccolo cimitero in cui, cinquantacinque anni dopo, del mito è rimasta la dimensione più umana: la morte.

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