Bruno Trentin e il coraggio dell’impopolarità

Se ne è andato dieci anni fa, con la furia di un ragazzo: la stessa con la quale, del resto, aveva sempre vissuto e affrontato la sua avventura di sindacalista in prima linea. Aveva ottant’anni, la dignità degli ultimi come una bussola, la liberazione del mondo del lavoro come una meta da raggiungere, i diritti dei lavoratori come un valore da difendere ad ogni costo e il coraggio smisurato di un galantuomo capace di assumere spesso decisioni impopolari.  

Nel ’92, ad esempio, siglando l’accordo con l’allora governo Amato che, di fatto, sanciva la fine della scala mobile, salvò l’Italia dal baratro ma poi preferì dimettersi dalla segreteria della CGIL (dimissioni che il successivo Direttivo della CGIL, convocato in settembre, respinse e che avrebbero avuto luogo due anni dopo, dando inizio alla segreteria di Sergio Cofferati), cosciente della gravità della scelta e convinto di dover comunque fornire una risposta inequivocabile ai lavoratori, verso cui avvertiva un debito morale.

Non aveva tradito ma la sua coscienza, la sua coerenza e la passione civile di una vita lo indussero ugualmente a compiere un gesto nobile che pochi, al suo posto, avrebbero compiuto: andarsene pur avendo fatto la cosa giusta, lasciare all’apice della carriera pur non avendo offeso nessuno ed essendosi, al contrario, reso protagonista di un atto per cui molti tuttora molti devono dirgli grazie. 

Perché Trentin era così: un uomo di cuore, un sognatore indomito, un sindacalista incapace di fare calcoli e di perdersi dietro a qualsivoglia politicismo, un riformista autentico e un amante del nostro Paese, in grado di sferzare chiunque dall’alto del suo prestigio, della sua autorevolezza e della sua riconosciuta levatura etica. 

Ha attraversato numerose stagioni, sempre con la stessa grinta, lo stesso ardore, la stessa passione per i giovani, la stessa curiosità e la stessa voglia di conoscere, di scoprire e di comprendere il mondo nelle sue molteplici sfaccettature. 

Ci ha detto addio in un giorno d’agosto, e oggi più che mai rileggere il suo saggio-cardine, intitolato “La città del lavoro”, è un buon modo per trasformare il doveroso omaggio in un programma di emancipazione dei lavoratori dallo sfruttamento e dalla perdita di peso politico, dovuta al tramonto dell’epoca tayloriana e fordista e all’avvento di nuove tecnologie in grado, sostanzialmente, di estromettere l’uomo dal cuore del processo di sviluppo.

Il partigiano Trentin avrebbe voluto così: concretezza e pragmatismo, elaborazione di idee e messa in pratica delle medesime, senza un minuto da perdere, mai, nemmeno quando si ritirava sulle sue amate montagne a riflettere, immerso nei silenzi di una natura verso cui nutriva un amore pressoché totale, infinito, tipico della sua personalità poetica e dolcissima, espressione di un lirismo interiore che riusciva a trasferire persino sui tavoli delle trattative sindacali più infuocate. 

Bruno Trentin, in poche parole, era tutto ciò che dovrebbe essere un sindacalista e un uomo di sinistra. Per questo il suo popolo, la nostra gente, gli ha perdonato persino gli errori e qualche cedimento, ben sapendo che se l’ha compiuto è stato comunque in nome di un ideale superiore chiamato giustizia sociale.

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