Amos Oz. In memoria

Esiste un luogo della parola che ha a che fare con la profezia: quel potere onirico che la scrittura sprigiona quando diviene impronta della storia e, al tempo stesso, visione.

Amos è uno dei profeti minori delle Sacre Scritture e parla con un linguaggio aspro e duro a un popolo ormai diviso nel solco di due regni distinti. A millenni di distanza, un uomo col suo stesso nome ci ha raccontato quello stesso popolo con la medesima vocazione alla parola. Amos Oz – scomparso lo scorso 28 dicembre – nasce a Gerusalemme nel 1939. La sua attività di scrittore e saggista ci ha regalato alcuni tra i romanzi più interessanti degli ultimi anni: da Micheal mio, all’autobiografico Una storia di amore e di tenebra, a Giuda.  Le sue opere sono state tradotte in circa trenta lingue e tra i saggi più importanti va ricordato Contro il fanatismo, scritto nel 2004. Ex soldato, appartenente al partito laburista, Oz è stato uno dei sostenitori più convinti di una “soluzione dei due stati” come risposta al conflitto che dilania da decenni il Medio Oriente.

Tra le sue pagine risale prepotente la forza di un messaggio ben al di là della storia – eppure radicato in essa – spiegato, sviscerato, dichiarato con forza ai due popoli divisi per eccellenza. Chi ha gli occhi pieni delle immagini del conflitto israelo-palestinese, dei bombardamenti, degli attentati, delle migliaia di morti che hanno accompagnato la fine del secolo scorso e inaugurato il nuovo; chi ricorda i fori di proiettile ovunque sulla striscia di Gaza, i muri, i profughi, non può che sussultare tra le pagine più dolorose di morte dello scrittore israeliano. Eppure Oz, così convinto di una possibile soluzione pacifica, di una possibile coesistenza pacifica tra i due popoli, non grida mai, non alza mai la voce e ci racconta la realtà della guerra in un gesto, in un rumore, nella consapevolezza di camminare tra i cecchini; senza retorica, senza reale volontà politica.

Gli uomini e le donne di Amos Oz si muovono al buio e nel gelo invernale in un paese in cui il sole brucia presto ogni cosa. Nel silenzio della notte i pensieri si diramano come strade infinite e i sogni raccontano di corpi e di incubi. E il corpo dei suoi personaggi porta su di sé le storpie interiori: sono corpi malati, piegati, zoppicanti e – quando belli – chiusi dietro a sorrisi negati. Ciò rende i personaggi di Oz indimenticabili: lo scrittore pennella squarci di vita quotidiana di una bellezza rara, animandoli di un’umanità sconfitta e, proprio per questo, eroica. Sono personaggi incapaci di colmare le distanze, di abbattere il proprio mutismo, salvo poi liberarsi in dialoghi lunghissimi in cui rivelare gli angoli più bui del proprio silenzio senza mai ascoltare realmente la risposta del proprio interlocutore.

La parola in Amos Oz si fa sogno, profezia; diviene carne e sangue e proiettili in uno squarcio, un accenno improvviso, un lampo; la parola rivela una Gerusalemme buia, chiusa nei suoi cunicoli stretti, nei suoi muri di pietra, eppure bellissima nella sua stanchezza. La parola ha il potere di dilatare il tempo e creare un luogo altro, sospeso, drammaticamente ancorato alla storia e al di fuori di essa. La parola è parola dei profeti, di Geremia, Isaia, del Levitico, di quei libri biblici che sono stati per Israele legge e cammino: la si ritrova ovunque, come una litania, come versi ripetuti a memoria e masticati da una vita a ritmo del cuore, pronti a saltare fuori, puntuali e rassicuranti, al momento opportuno, quando la voce manca e la gola si stringe.

Ciò che rende Amos Oz uno scrittore da ricordare, da accogliere tra gli scaffali della propria vita, è quella capacità ormai quasi dimenticata di descrivere ogni cosa con una dovizia di dettagli alla quale ormai non siamo più abituati. Ci invita a fermarci, a restare, a prendere un caffè forte con lui; a ricordarci del maglione rosso di una delle sue donne più ferite e complete; a respirare l’odore delle notti invernali. Mentre le ripetizioni continue che caratterizzano il suo stile ricordano il linguaggio quotidiano e un po’ il nostro Tabucchi: ci mostrano che la letteratura è il ritmo stesso della vita, coi suoi respiri, i rimandi, le frasi di tutti i giorni che si impastano del nostro passato senza che ce ne accorgiamo.

Amos Oz ci costringe a scoprirci, a rompere il silenzio anche quando il dolore chiude i polmoni; e lo fa con gentilezza, con eleganza, prendendoci per mano e trasportandoci, parola dopo parola, dentro ad una profondità di esistenza che si rivela profezia: “gli occhi – commentò Gershom Wald – non si apriranno mai. Quasi tutti gli uomini attraversano lo spazio della vita, dalla nascita alla morte, a occhi chiusi. Anche tu ed io, mio caro Shemuel. A occhi chiusi. Perché se solo li aprissimo per un istante, ci sfuggirebbe da dentro un urlo tremendo e continueremmo a urlare senza smettere mai. Se non urliamo giorno e notte, è segno che teniamo gli occhi chiusi”. (Giuda)

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