Il giro dell’oca di Erri De Luca: dialogo con il figlio mai nato

La scrittura di Erri De Luca è da sempre impregnata di vita vissuta, di immagini, di profumi e ricordi; è una tessitura fortemente autobiografica che diviene, in alcuni casi, solco fertile di altre storie e racconti.

Il suo nuovo libro,  Il giro dell’oca (Feltrinelli), ha però il carattere di una vera e propria confessione: giunto quasi ai suoi settant’anni, lo scrittore si trova a dialogare col figlio quarantenne che non gli è mai nato. Attorno al tavolo della cucina, apparecchiato con un bicchiere di vino rosso e del pane abbrustolito sul fuoco del camino, lo scrittore ritrova la sua paternità negata in una fredda sera d’inverno.

La casa in Erri De Luca è stata – tra le sue pagine – utero, fortezza, rifugio prima dell’alba sulle lettere antiche delle Sacre Scritture. È divenuta lavoro di mani in ogni sua pietra, in ogni albero piantato con cura e mai lasciato; per poi distruggerla, disintegrarla, sotto una tempesta incontrollabile di ricordi e di rimpianti. È dentro la solitudine delle mura animate di fantasmi e sogni che lo scrittore si sorprende in un monologo col figlio abortito che non ha potuto crescere  E quando lui – dal fondo di un futuro negato – comincia a rispondergli, l’assolo diviene dialogo incalzante, fatto di rimproveri, provocazioni, ricordi mai stati, a cui lo scrittore risponde col ritmo di una canzone quasi filastrocca: “il rigo da leggere” che “ha da stare tra due battiti di ciglia” disegna sulla pagina la partitura di disobbedienze, scalate, cantieri; e poi Napoli e il suo viaggio di sola andata. Il pentagramma della lingua rivela il legame antico tra la divinità e l’uomo, in questa ricerca di paternità che, a volte, coincide con la fede; ci racconta di madri e padri, di assenze e presenze.

È la voce del figlio a fare da controcanto, a chiedere conto di ciò che è andato perduto: “ma sono qui al tuo tavolo, in esilio da qualunque geografia e da nessun posto. Nei tuoi racconti cerco una coincidenza con me, che mi possa spiegare da chi ho preso, chi sono. Non ne trovo una. Non sei un padre. Sei una narrativa. Ascoltarti è sfogliare un almanacco”.

La durezza delle sue parole lo interroga sulla fede, lo ammonisce e rimprovera sulla sua solitudine stanca; la sua voce di figlio domanda e respinge, rompe prepotente il silenzio della casa. Le loro parole vanno al di là dell’affetto e risuonano di una distanza che è ormai lungi dal colmarsi: “no, papà, non resto. Domattina al risveglio non mi troverai. La tua tavola continuerà a essere apparecchiata per te solo”.

La parola in Erri De Luca è il luogo per eccellenza dove stare, esistere. Così questo figlio non è frutto di immaginazione, ma è presenza; ha la concretezza dei ricordi, delle domande per cui non esistono risposte; la sua essenza sta nella somiglianza, nella voce intima dello scrittore in dissolvenza: “tra noi due, sei tu più consistente. Non sei un accidente letterario, stasera esisti, i tuoi gomiti sono più larghi dei miei su questa tavola. Hai mandibole larghe. Sorridi che ti descrivo. È per farti sapere che ti tengo presente con o sensi aperti, non per immaginazione. La tua malinconia stasera è di esistere da padre inesistente”.

Insieme esistono, padre e figlio, in quel luogo intimo e intransigente che è la letteratura e il loro dialogo diviene l’espediente per un lascito, qualcosa che ci trasforma da lettori a figli: “ho un corpo e sono stato al gioco di viverci dentro. Che gioco? Il gioco dell’oca. Si tira un dado e ci si sposta in un circuito a spirale. […] Il corpo è il gioco, io sono la pedina. Il tavolo, la panca di stasera sono una casella. Ci siamo dentro e spetta a te il lancio del dado. Io mi fermo qua”.

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