Coronavirus, prove tecniche di estinzione?

Più volte, nel corso della storia, l’umanità ha temuto per la propria sopravvivenza. Il grido “E’ la fine del mondo” è risuonato ogni volta che eventi inspiegabili hanno sorpreso i nostri padri: dal mitico diluvio universale alle bibliche sette piaghe d’Egitto, dai terremoti alle alluvioni, dalle guerre mondiali alla scadenza dei millenni. “Mille e non più mille” dicevano i sacri libri, ma finora non è successo: la fine del mondo finora è rimandata. Ma la paura rimane. 

Oggi, per molti nostri contemporanei il riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacci eterni, sette miliardi e mezzo di abitanti, con conseguente carenza dei viveri e il coronavirus non sono altro che avvisaglie da prendere come profezie. In più c’è sempre il possibile errore manuale che può portare alla guerra nucleare o lo scontro della terra con un gigantesco meteorite: “Ecco, vedete – dicono quelli che pensano sempre al peggio – ci siamo” e prevedono ulteriori catastrofi: l’arrivo dei marziani, la presa di potere da parte dei virus oggi visibili solo al microscopio ma che potrebbero crescere e diventare grandi come dinosauri, un’altra e definitiva pestilenza e via di questo passo. A proposito di dinosauri, loro, poveretti, non sapevano che stavano per estinguersi, e hanno continuato a campare: gli erbivori brucando, i carnivori azzannando. Noi, invece, che a quanto pare abbiamo mangiato il frutto proibito dell’albero della conoscenza, ce la siamo cercata.  Fino ad oggi c’è andata bene. Ma per quanto ancora?

 Di cambiamenti l’umanità ne ha già vissuti parecchi e di grande rilevanza: dagli immensi imperi dell’antichità è passata alle più modeste dimensioni degli stati moderni, dalle feroci dittature alle più tranquille, fragili democrazie, dallo sterile latifondismo alla fruttuosa piccola proprietà agricola, in campo socio-economico dal comunismo al capitalismo, con conseguente rapinoso consumismo. Autentiche rivoluzioni, alcune sanguinose altre incruente, che hanno cambiato la storia dell’uomo. Non sempre in meglio. Scriveva giustamente Pier Paolo Pasolini: “Sviluppo non significa progresso”. Ma non sono stati in tanti ad ascoltarlo.

Tuttavia, oggi nessuno auspica una rivoluzione con le barricate e tanto meno gli eccidi di massa: basterebbe una consapevole coscienza ambientalista, uno spirito universale di solidarietà non solo limitato alle organizzazioni caritatevoli, una ricerca sistematica di quanto può essere utile all’uomo per vivere meglio e non temere tanto spesso la fine per miseria, malattia, conflitti o altre sciagure spesso evitabili. Basta rendersi conto che così non si può andare avanti. Ma questo non vuol dire la fine del mondo.

Significativa anticipazione di quello che potrebbe essere la società post-epidemia sono le piccole, grandi rinunce oggi decise dagli stati: la Svizzera ha annullato il suo prestigioso Salone internazionale dell’auto di Ginevra, la Francia il suo Festival del cinema di Cannes, il Giappone ha posticipato le Olimpiadi, l’Europa il suo campionato di calcio, anche la Formula Uno è finita in archivio. Quante delle occasioni oggi travolte dal virus saranno recuperate quando sarà passata l’edordiana “nuttata”? O di qualcuna e di qualcosa dovremo fare a meno per sempre? 

Non è azzardato tirare in ballo il Titanic: oggi il nostro mondo sta allegramente navigando verso il suo iceberg mentre a bordo una spensierata orchestrina suona allegri motivetti. Qualcuno obietterà: ma non sarà un mondo invivibile quello senza le frivolezze, il lusso, il superfluo, il futile? Certo, sarà più dura per le elitès oggi avvantaggiate (profumi, balocchi, paradisi fiscali), meno per chi ha solo il necessario, e spesso neanche quello, ma non si può difendere da cassa-integrazioni, licenziamenti, pignoramenti. Gli ultimi della terra sperano sempre in un mondo migliore per poter finalmente contare su una più equa distribuzione dei beni e disposizione. Senza per questo gridare alla fine del mondo. 

Oggi siamo alla disperata ricerca delle mascherine e presto le troveremo. Ma domani, per favore, non ricominciamo a giocare all’enalotto.  Il fatalismo è peggio del catastrofismo. 

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