La pandemia crea meta-arte

L’ 8 settembre 1981, una tra le voci più singolari dell’arte italiana contemporanea, Mari Lai (1919-2013) realizzò, per il Comune di Ulassai, un monumento ai caduti.  In realtà, l’artista decise di onorarne la memoria celebrando la vita del piccolo paese tra i monti dell’Ogliastra e, con l’opera d’arte dal nome Legarsi alla montagna, mise in relazione gli abitanti con l’abitato.  La performance passerà alla storia come la prima esposizione d’arte relazionale. 

Legarsi alla montagna durò solo una giornata e l’abitato fu legato interamente dalla sua gente con un nastro di cotone blu il cui capo venne portato in cima alla parete di roccia sovrastante. La performance annodò una intera comunità e questa al suo monte. 

 L’artista in quell’occasione rinunciò al suo ruolo di creatore e affidò la realizzazione della sua opera d’arte a tutti i singoli cittadini che ricoprirono nello stesso tempo, il ruolo di artista, intermediario e spettatore. 

L’incredibile impatto visivo divenne patrimonio culturale grazie ad alcune fotografie in bianco e nero scattate lungo quell’unica giornata e che recentemente abbiamo potuto ammirare anche alla Biennale di Venezia del 2017.

Come non pensare, allora, alle similari performance artistiche che si realizzano oggi, spontaneamente, in tempo di pandemia, quando interi quartieri di città italiane danno voce ad un profondo senso di appartenenza, il tutto documentato da scatti fotografici e riprese video poi pubblicate ovunque sui social media e giornali, nazionali ed internazionali?

Proprio come Maria Lai chiedeva ai suoi concittadini di affacciarsi dai propri balconi e finestre per passarsi un nastro colorato, così il medesimo gesto lo si ritrova oggi nell’unire canti, musica e voci di speranza. Un’opera d’arte relazionale involontaria, che scaturisce spontaneamente, per esprimere un sentimento di solidarietà ed appartenenza ad un preciso momento storico. 

Ed altrettanto involontario è il modo di far meta-arte, ossia l’arte che parla d’arte. 

Se nel 1981 nessuno avesse fotografato la performance di Maria Lai, non solo non ne sarebbe rimasta fonte storica, perdendo un’innovazione artistica, ma non avremmo potuto neanche parteciparne empaticamente.  Le fotografie in sé, dunque, non furono l’opera d’arte, la quale si concluse in ventiquattro ore, ma il mezzo che lasciò ai posteri un’opportunità concreta all’empatia. 

Oggi, come allora, i nostri smartphones catturano immagini d’arte relazionale di popoli in quarantena forzata, mostrandone la comune appartenenza culturale ma anche le differenze dovute alle diverse tradizioni.  Una documentazione che resterà nei nostri archivi non propriamente come arte, bensì meta-arte.

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