Cinghiali in città. Intervista allo zoologo Luca Giardini

ROMA – I recenti dibattiti apparsi sui media e social-media per la soppressione di alcuni cinghiali avvenuta quasi nel cuore di Roma, hanno riacceso l’attenzione sulla coesistenza tra uomo e animali selvatici. Rapporto spesso dominato da contrasti più che da un’analisi delle criticità.

Abbiamo posto alcune domande a Luca Giardini, che da più di due decenni si occupa professionalmente di animali selvatici (e di cinghiale) con esperienze di ricerca, per avere un punto di vista sulla presenza del cinghiale a Roma. 

Sei sorpreso della presenza del cinghiale a Roma? 

Non proprio. Della situazione in Italia si sapeva abbastanza e da tempo. Già all’inizio degli anni ‘90 una lunga serie di convegni scientifici, spesso organizzati da Provincie e Regioni, di pubblicazioni scientifiche italiane e internazionali avevano in qualche modo messo in luce l’espansione della specie ed evidenziato i potenziali impatti.  L’inurbamento ce lo si aspettava meno ma non era proprio imponderabile. Genova è forse stato forse uno degli esempi più evidenti a livello mediatico. Ma non dobbiamo dimenticare che i primi effetti furono osservati nelle aree agricole, nelle aree naturali e nelle aree peri-urbane in tutta Europa, non solo in Italia. Relativamente a Roma, Antonio Cederna aveva descritto i “cunei verdi” della città che hanno favorito la presenza di specie selvatiche fin quasi nel centro storico (es.: volpe); fenomeno evidente nella letteratura già a partire dalla fine degli ‘70. 

Pensi che sia il comportamento a determinare l’espansione del cinghiale fin dentro le aree urbane? 

Certamente è un variabile di peso, struttura sociale, allevamento della prole, capacità di apprendimento, eccetera. Sono tutti elementi significativi, come sottolineato da un’etologa in un recente articolo web sul caso romano. Ma personalmente eviterei di focalizzare solo gli aspetti etologici. L’ecologia, applicata in campo faunistico, i suoi modelli matematici forniscono strumenti che hanno consentito risultati evidenti ad esempio con le reintroduzioni (es.: cervo, capriolo, camoscio d’Abruzzo, orso, ecc.,); ma soprattutto hanno messo ben in luce che nella nella gestione faunistica e nella biologia della conservazione spesso, se non sempre, è necessario effettuare analisi e studi di contesto ben più ampio, ecologico. Banalmente: se posso dimostrare che le trote sono pesci, non posso concludere che sopravvivano in mare. Citando Karl Popper, il metodo induttivo è inutilizzabile nelle varie fasi dello studio scientifico; considerando poche variabili il rischio c’é. Aspetto fatale nei molti assunti che si leggono sull’espansione del cinghiale o sui metodi per contenerla. Le aree urbane e peri-urbane vedono la concretizzazione di un fenomeno che da più tempo investe i piccoli comuni, ancor più se inseriti in contesti a maggior grado di naturalità. Semplificando: trasformazioni territoriali, di carattere antropico o naturale, caratteristiche ecosistemiche e caratteristiche della specie (fisiologiche, anatomiche, riproduttive, etologiche, alimentari, ecc.) andrebbero analizzate nel loro complesso. Un lavoro più tipico degli ecologi e biologi delle popolazioni animali indipendentemente dai tipo di formazione accademica. Se i cinghiali sono anche in città bisogna chiedersi prima il perché, ma senza attendere una risposta univoca.

Secondo te quali sono gli effetti più evidenti legati alla presenza del cinghiale? 

Personalmente distinguerei gli effetti “diretti” intesi come impatti, incidenze e vulnerabilità, dagli effetti indiretti e mediatici meno quantificabili. Tra i primi l’effetto sulle produzioni agricole; non sono un veterinario ma non posso trascurare gli aspetti sanitari (es.: peste suina africana, trichinella, ecc.); i potenziali effetti sulla ricchezza di piante e animali; le potenziali reazioni nei confronti dell’uomo e di alcuni animali domestici; gli effetti del cinghiale sulla sicurezza stradale, spesso causa di incidenti anche drammatici e dei quali si parla meno. 

Gli effetti mediatici? 

Soprattutto a livello “social” sono sotto gli occhi di tutti. Due grandi classici sono il controllo coi “contraccettivi” e i centri di “ricovero per cinghiali”. L’uso di contraccettivi si è dimostrato inefficiente su specie anche molto diverse tra loro (es.: volpe, colombo di città, ecc.). Uno studio recente, condotto anche da ricercatrici italiane, ha dimostrato la scarsa efficacia anche sul cinghiale (Croft S., B. Franzetti, R. Gill, G. Massei, 2020); si tenga anche conto dei costi necessari che per la sola Regione Lazio (visto che si parla anche di Roma), andrebbero moltiplicati per decine di migliaia di d’individui. Le stesse proposte aree di “ricovero/recupero” per cinghiali, ove stoccare una quantità “utile” di animali catturati, richiederebbero dimensioni notevoli. Non sempre si ha contezza dei numeri in gioco spesso anche esagerandoli. Un altro classico è l’attività venatoria che raramente sembra avere incidenze sostanziali sul cinghiale se non temporanee e localizzate. Va constatato che c’è molto spazio per gli stakeolder di qualsiasi orientamento filosofico e politico mentre ce n’è meno per coloro che, per studio o per lavoro, si occupano attivamente del problema. Fenomeno che alimenta falsi miti, ipotesi risolutive affascinanti ancorché politicamente corrette. La piccola area protetta, il singolo comune, non possono avere incidenze sostanziali sul fenomeno se non inquadrate in analisi di contesto ampio. 

Dietro si nasconde un problema normativo? 

È vero in parte e dipende dall’area amministrativa. Le aree protette a mio avviso hanno avuto più strumenti di pianificazione e di intervento implementati dal 1991 in poi (legge quadro sui parchi). Le altre aree sono più o meno rimaste, con qualche passo avanti, alla normativa nazionale del 1992 (legge sulla fauna omeoterma), quando il “problema cinghiale” era molto meno evidente e sentito. Anche qui però andrebbero fatte delle distinzioni: ad esempio tra le Pubbliche Amministrazioni che si sono adoperate di più nel quadro e nei limiti imposti dalle norme e quelle che si sono adoperate meno. 

Non parli di cause specifiche. Esiste un problema di conoscenza sull’argomento? 

Non ne parlo perché la letteratura scientifica è molto ampia sull’argomento; gli studi vanno da livello di popolazione a livello biomolecolare; sono molti i centri di ricerca e spin-off che lavorano sull’argomento e che non cito per evitare di dimenticarne qualcuno. Non vedo un problema vero e proprio di conoscenza del fenomeno, benché sia auspicabile proseguire studi e ricerche sull’argomento. Piuttosto ho l’impressione che il problema venga maggiormente inseguito da politiche locali, anche urbane, più che affrontato da strategie più complessive con un supporto scientifico specifico. Rimuovere qualche cinghiale dai navigli di Milano o da un parco pubblico romano, significa intervenire su dei sintomi che prima o poi si riproporranno.

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