Precarietà e articolo 18, come ci sta’ con professionalità, competenza ed esperienza?

TORINO- Personalmente vengo da aziende di operai di mestiere (FIAT COMAU). Quando vi lavoravo avevo notato che ogni tanto qualcuno andava in Direzione per dare le dimissioni. Una parte di questi operai (e anche di tecnici) poi rimanevano. Chi erano costoro? Erano tra i più bravi.

E usavano le “dimissioni” come arma di “ricatto” nei confronti della Direzione per avere aumenti di salario, avanzamenti di carriera, ecc. Ovviamente la Direzione ci stava per non perdere della professionalità e delle competenze acquisite in anni e anni di esperienza. Per avere un operaio provetto o un tecnico capace, autonomo, ci vanno anni e anni di accumulo di esperienza lavorativa. 

Domanda: nei lavori di “fino”, quelli di qualità, quelli a cui si richiede il massimo di autonomia e di professionalità, nella epoca attuale cosa è cambiato? C’è stato un mutamento sostanziale con l’introduzione della informatica, arricchendolo (il lavoro), ma il contenuto del lavoro qualificato, della prestazione non è per nulla cambiato. 

La flessibilità del lavoratore, quella ricercata dal soggetto era nei fatti un ACCUMULO di esperienza che il lavoratore faceva magari in diverse imprese, ma sempre sulla stessa professionalità: aggiustatore, stampista, tracciatore, addetto alle macchine (a Controllo Numerico, frese, torni, ecc.). Evidentemente chi ne traeva profitto era il lavoratore stesso ma anche l’ultimo imprenditore che gli dava lavoro.

Dice sull’art.18 Gino Rubini della CGIL Emilia Romagna: “Il lavoro di qualità richiede relazioni fondate sul rispetto e sulle regole. La crescita della qualità e dell’elevato contenuto in valore tecnologico di molte aziende emiliane è andata di pari passo con l’espansione dei diritti e della civilizzazione dei rapporti sociali. Per non fare nomi ma solo qualche esempio, aziende come Ferrari, Lamborghini e Ducati perderanno di qualità se prevarrà la logica barbarica di trattare i lavoratori come “vuoti a perdere”… Questa ideologia miserevole per cui oltre al cenno (ad nutum) butti sul tavolo una manciata di banconote per scacciare il lavoratore e acquisire competitività può andare bene per imprese che stanno a livelli miserevoli di contenuto tecnologico e di qualità del lavoro”.

E aggiunge: “Questi signori tecnici (del governo) hanno una vaga idea della complessità del reticolo di relazioni sociali che fondano la produzione di valore in una impresa? La penosità e in qualche misura il pensiero atrofizzato di questi tecnici assomigliano alla visione di quel comandante di jumbo che manda in stallo l’aereo per risparmiare sul carburante”.

Diverso è invece il lavoro ripetitivo (es. ad una catena di montaggio). Le mansioni sono del tutto povere. Da qualche manciata di secondi a qualche manciata di minuti: e sempre con la ripetizione. Epperò! Con il tempo, dovuta proprio alla particolare prestazione ripetitiva, l’esperienza accumulata faceva sì che il lavoratore acquisiva abilità e destrezza nella propria mansione, aumentando di parecchio la sua bravura e la sua produttività (in termini di velocità di esecuzione). Basta vedere un lavoratore nuovo assunto e posizionato in una catana di montaggio nei primi giorni di lavoro: si “imbarca” sempre (= non riesce a stare nei tempi assegnati). In più l’accumulo di esperienza va tutta in favore dell’impresa nel senso che tutto il lavoro male progettato o non progettato viene colmato dalla bravura del lavoratore (bravura, mai o poco riconosciuta sia in termini salariali che di qualifica). Nella epoca attuale questi lavori ripetitivi si sono arricchiti con l’introduzione della robotica (e quindi abbiamo dei lavoratori che fanno quasi solamente prestazioni di controllo) o di nuove tecnologie tra le quali anche apparati informatici.

Perché allora questa insistenza sull’art. 18? Perché il personale dell’attuale governo non sa assolutamente nulla di un luogo di lavoro, non l’ha mai visto, né tantomeno vissuto, ne fa solamente un argomento di carattere ideologico. Diverso è invece l’approccio del padronato: fatto salvo quei padroni (pochi purtroppo) che con il fischio ricorreranno all’art. 18 in quanto i lavoratori che impiegano se li vogliono tenere in quanto gente brava ed esperta nel lavoro (che gli è magari costata nella formazione ricevuta), il rimanente (una buona maggioranza) che fa solo delle “carabattole” lo userà in due modi:

  • per produrre l’ennesima pulizia etnica, ergo tutti coloro che per passate vicende lavorative oggi si ritrovano con qualche acciacco alla salute (inidonei e invalidi, oltre che anziani più donne in maternità!) e rischiano di essere in grande numero, sostituendoli con giovani precari molto disponibili perché più ricattabili. 
  • tutti coloro che hanno la “schiena dritta” (a prescindere dalla loro collocazione politica e/o sindacale), coloro i quali per es. non accettano supinamente lo straordinario, ecc. saranno pochi però con un chiaro obiettivo terrorista: “colpirne uno per educarne 100”.

 

Per fortuna non tutto è così…

Il che non significa affatto che tutta la nostra manifattura sia tutta di questa specie, lo è purtroppo la maggioranza e specie la piccola e micro impresa. Infatti stando al libro di A. Calabrò (Orgoglio Industriale, Ed. Mondadori) questi ci dice che nel 2008 su ca. 4.000.000 di aziende manifatturiere presenti nel nostro paese, ce ne sono 4.600 (lui le chiama “multinazionali tascabili” che vanno dai 50 ai 500 addetti) che forse ci tireranno fuori dalla crisi. 

Domanda: chi le conosce, cosa fanno e cosa fa lì il sindacato (posto che ci sia)? Domanda successiva: è una bestemmia pensare di poter costruire a sinistra (a partire dai sindacati) un archivio di queste aziende per portarle all’onore del mondo, per tentare di farle mettere in contraddizione con il resto delle imprese? Per tentare una sorta di “alleanza dialettica” con il movimento dei lavoratori. Non fosse altro perché in questo campo vi sono senz’altro le possibilità di un “conflitto” più avanzato e non solo sulla difensiva.

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