Infame e bersaglio. Abbatino scaricato dallo Stato

ROMA – “L’infame” a Roma è quello che “fa la spia” alle “guardie”.

L’infame per eccellenza, per l’arcipelago che va dalla vecchia e nuova Banda della Magliana agli ambienti dell’eversione nera che con la Banda si allearono fino a diventare in alcuni casi coincidenti, si chiama Maurizio Abbatino. L’uomo che con le sue dichiarazioni scoperchiò il verminaio che si era preso Roma e dalle quali partì l’operazione Colosseo nei primi anni ’90. Nato nel quartiere della Magliana vecchia già nel ’72 si fa “bere” per furto, esce e lo arrestano con l’accusa di duplice omicidio – dalla quale venne assolto per insufficienza di prove – e poi il salto dopo l’incontro Franco Giuseppucci e la nascita della Banda, l’idea di riunire le “batterie” in un’unica holding criminale. L’infame è stato socio fondatore della Banda della Magliana e poi con le sue dichiarazioni l’ha smontata. Più di un tradimento per chi quel sistema criminale l’ha creato, vissuto e poi è finito in carcere grazie alle sue parole.

Dopo il suo arresto a Caracas in Venezuela nel 1991 e l’inizio della sua collaborazione con la giustizia è scattato il programma di protezione. Località protetta, un’identità segreta e coperta e uno stipendio (che è tutt’altro di quello da nababbi che i detrattori del “pentitismo” continuano a sventolare) per sopravvivere. Non una bella vita. Certo, non il “gabbio”, anche se in carcere c’è stato, ma neanche un premio. Abbatino non è una brava persona, ha ucciso, rapinato, rapito (lui è uno dei protagonisti del rapimento Grazzioli Lante della Rovere atto di nascita della Banda) estorto, trafficato, spacciato, ricattato. Però poi si è pentito e ha collaborato, ha pagato un prezzo per la sua storia e ha contributo a fare luce sugli anni più bui della Capitale. Ha fatto un contratto con la giustizia e lo Stato e lo ha sempre onorato.

Oggi Abbatino, malato e senza patrimoni e “tesoretti” su cui fare affidamento, diventa il bersaglio di ogni criminale e balordo che popola la Capitale. Diventa il simbolo di uno Stato, quello Italiano, che quando si tratta di mafia e versione spesso non onora gli accordi presi. E diventa icona della resa della nostra società a un sistema criminale che ha inquinato – direttamente o indirettamente – ogni settore della vita pubblica. Perché in questo momento Abbatino è solo, senza un domicilio protetto, senza protezione da parte dello stato, senza neanche un’identità coperta che lo tuteli o un po’ di soldi da parte – o forniti dallo Stato – che gli consentano di espatriare e cercare di vivere in sicurezza gli anni che gli restano. Non in pace. Semplicemente non aspettare che arrivi qualcuno che ti uccida. E presenti il conto all’Infame.

Fine rapporto. In tempi di Jobs Act e di crisi ormai l’incubo di tutti gli italiani. Ma nessun italiano oltre alla paura del licenziamento deve temere, come Abbatino, un colpo di pistola alla testa. Ma questa è la burocrazia italiana, questo è il destino di gran parte dei “pentiti” che dopo essere stati spremuti dalle procure di mezzo Paese alla fine vengono abbandonati. Senza neanche il tfr. Perché il tfr di quasi trent’anni di collaborazione per Abbatino è rappresentato da poche migliaia di euro e l’obbligo (perché non pensiate che sia libero visto che sta scontando la pena a cui è stato condannato) degli arresti domiciliari. E che cosa potrebbe fare Abbatino se non tornare a Roma e indicare come domicilio una casa dove possano assisterlo e aiutarlo – fra l’altro la sua malattia gli impedirebbe anche di lavorare – e quindi probabilmente di qualche famigliare e esponendosi quindi a ogni possibile vendetta. Che per gli Infami, a Roma e ovunque, è la morte. 

Questo fa ben capire per la ragione per la quale alcuni collaboratori di giustizia più accorti, come Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno, abbiano scelto di affidare la propria vita ai programmi di protezione statunitensi e non a quelli italiani. Ma dopo tutto questi due pezzi da novanta erano figli e prodotto della lunga tradizione di Cosa nostra – e dei suoi rapporti con lo Stato italiano – e non figli della Magliana Vecchia.

Cosa è avvenuto? Andiamo a capirlo dal racconto che fa l’ex giudice istruttore dell’Operazione Colosseo, Otello Lupacchini, che fu il primo a raccogliere le sue dichiarazioni riportate in un suo recente articolo. «Singolari le cadenze dell’estromissione di Maurizio Abbatino – scrive Lupacchini – dal programma di protezione: deliberata alcuni giorni dopo la deflagrazione dell’inchiesta “Mondo di mezzo”, presto ribattezzata “Mafia Capitale”, messa in esecuzione alla vigilia del dibattimento. La Commissione in questione, istituita presso il ministero dell’Interno, è composta da un Sottosegretario di Stato all’Interno che la presiede, da due magistrati e da cinque funzionari e ufficiali preferibilmente scelti tra coloro che hanno maturato specifiche esperienze nel settore e che siano in possesso di cognizioni relative alle attuali tendenze della criminalità organizzata, dunque da persone in grado di cogliere come tra la storia criminale illuminata dalle rivelazioni di Maurizio Abbatino e quella messa in luce dall’inchiesta “Mondo di mezzo” le “significative ricorrenze”, sottolineate dal Procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, in occasione dei primi arresti, il 2 dicembre 2014: “Ritornano dei cognomi. Si rivede un metodo. Si apprezza una capacità criminale di tenere insieme attori diversi: malavita, camorra, ’ndrangheta, mafia. Abbastanza per pensare che le traiettorie del vecchio gruppo criminale non si siano esaurite con la sua dissoluzione”. Or bene, delle due l’una: o gli esperti della Commissione centrale non hanno colto quelle “singolari ricorrenze”, o perché non vi sono o perché non in grado di coglierle, ovvero le hanno colte fin troppo bene. In ogni caso, la deliberazione della Commissione centrale suona campane a morto per il processo che si va a celebrare: o non è chiara o non è convincente la prospettazione accusatoria, tanto da non esserne state colte le implicazioni da parte degli esperti, per quanto di competenza della Commissione; ovvero la prospettazione accusatoria è fin troppo chiara, ma allora il trattamento riservato a Maurizio Abbatino potrebbe veicolare un messaggio devastante per coloro che volessero scegliere una strategia improntata alla collaborazione: “Attenzione a quel che fate, che qui vige il principio del “si usa e si getta”».

Fra l’altro praticamente tutti quelli che sono stati condannati per le dichiarazioni dell’Infame Abbatino – e che non siano deceduti o non siano rientrati nell’inchiesta Mafia Capitale – oggi sono in libertà. E la vendetta è un piatto che si consuma freddo. E ancora. Roma è piena di ambiziosi balordi pronti a farsi avanti per accreditarsi con chi conta in particolare ora che la pax romana – presunta – è stata posta in una fase di disequilibrio proprio dall’inchiesta sul sistema di Mafia Capitale. 

Pochi giorni dopo gli arresti di Mafia Capitale, quindi, la Commissione scarica Abbatino, nonostante gli stessi atti dell’inchiesta dimostrino la continuità e non solo per la figura di Massimo Carminati degli scenari e degli intrecci fra il mondo della Banda, Ordine Nero, Nar, P2, Cosa nostra, ‘ndrangheta e Camorra – e pezzi innominati e innominabili degli apparati dello Stato – come il collaboratore ha raccontato in più di un processo, fra cui quelli sul depistaggio per la strage di Bologna e quello ancor più celebre dell’uccisione del giornalista Mino Pecorelli che vedevano Carminati imputato. E l’iter va avanti fino ad oggi. Burocrazia. La nostra burocrazia.

Ma una cosa non dice esplicitamente Lupacchini, che tuttora fa il magistrato e quindi comprendiamo la sua residua cautela: che a dare parere favorevole alla decisione della Commissione di buttare nel cassone dei rifiuti Abbatino sono stati, nell’ordine, la procura nazionale Antimafia e la procura di Roma, e che quindi l’ufficio del procuratore capo Giuseppe Pignatone titolare dell’inchiesta Mafia Capitale ha dato il suo consenso alla liquidazione – non pensionistica – del rapporto di collaborazione del principale e storico accusatore del suo imputato di punta: Massimo Carminati. Quel Carminati che, nel corso del processo per il depistaggio sulla strage di Bologna rivolgeva i suoi pensieri “a San Maurizio” e si salvò per il rotto della cuffia grazie alle improvvise dichiarazioni rilasciate in “zona cesarini” di un collaboratore come il terrorista nero Sergio Calore poi ucciso nel 2010 a picconate in un casolare di sua proprietà a Guidonia Montecelio in provincia di Roma. 

E’ lecito quindi chiedersi per quali ragioni la procura – che esplicitamente collega Mafia Capitale a quegli anni fino a spingersi e definire Mafia Capitale diretta evoluzione sia della Banda della Magliana che degli ambienti dell’eversione nera – ha ritenuto di non avvalersi della testimonianza di Maurizio Abbatino se non fosse per ribadire in dibattimento le origini e la pericolosità di Carminati e di altri imputati del processo. 

Ed è ancora più importante capire per quale ragione, proprio nel corso di un processo come quello appena iniziato si è voluto dare un messaggio così devastante verso chi fra gli imputati fosse anche lontanamente intenzionato a collaborare con la giustizia.

Solo cieca burocrazia? Non riusciamo e non vogliamo crederci.

 

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