Perché il M5S ha vinto e perché adesso deve cambiare

Che dire di questi ragazzi del M5S che domenica scorsa sono entrati in massa all’interno delle istituzioni, dimostrando di essere ormai una forza strutturale del sistema politico italiano?

Che dire dei loro sogni, delle loro speranze, della loro visione diversa e altra della società e del mondo, finalmente premiata da un elettorato stufo della contrapposizione ventennale, e ormai artefatta, fra una destra allo sbando e una sinistra che di sinistra non ha più nemmeno la storia, la cultura e la tradizione? E che dire del fatto che in un mondo sconvolto dai Trump, dai Farage, dalle Le Pen, dagli Orbán e dai Duterte, in Italia, grazie a loro, se non dovessimo riuscire a ricostruire in breve tempo delle culture politiche all’altezza, al massimo avremmo al governo questa sgangherata ma sostanzialmente democratica compagnia di giovanotti, desiderosi di assaltare il cielo e, al tempo stesso, di portare una ventata d’aria fresca all’interno delle istituzioni? 

Personalmente, per come si stanno mettendo le cose in un Occidente dilaniato da trent’anni di liberismo arrembante, di disuguaglianze sempre più insostenibili e di ingiustizie che hanno minato il futuro di almeno due generazioni, non mi sento affatto minacciato dall’avanzata di questa forza politica che, quanto meno, sta tentando, sia pur in maniera avventurosa, di restituire un briciolo di protagonismo ad un popolo che dovrebbe essere sovrano e, invece, da tempo immemore è suddito.

Il tutto, ovviamente, ad un patto: che cambino tutto.

Perché il M5S è arrivato fin dove è arrivato soprattutto a causa degli errori e delle mancanze altrui, della presunzione altezzosa e irrispettosa della sinistra, dai fallimenti a catena del berlusconismo, dell’erosione dello stato sociale, della scomparsa dei diritti, delle leggi bavaglio e vergogna varate dalla destra e mai smantellate dalla sinistra, delle malversazioni cui destra e sinistra, sia pur in misura differente, hanno dato vita negli ultimi vent’anni e, più che mai, del clima da larghe intese sine die, da Partito della Nazione e da annullamento di ogni fisiologica differenza tra le diverse forze politiche cui siamo andati incontro a partire dall’autunno del 2011.

Ha combattuto sul versante dell’onestà e della legalità, ha riavvicinato e riconquistato alla passione e all’impegno civile e politico migliaia di giovani che senza questa compagine si sarebbero semplicemente lasciati andare, disaffezionandosi e cadendo facilmente nell’apatia e nel nichilismo, ha cambiato alcune prassi parlamentari, rendendo il dibattito stesso più effervescente e, soprattutto, restituendo dignità al concetto di opposizione, e ha avuto il coraggio e l’abilità di candidare figure fresche e innovative come Chiara Appendino: una ragazza di trentadue anni che fino a una quindicina d’anni fa sarebbe stata la candidata naturale del centrosinistra.

In poche parole, ha avuto la forza e la determinazione di mettere in risalto tutta l’arretratezza, lo scadimento qualitativo e l’incapacità di rinnovarsi di una classe dirigente complessivamente incapace di comprendere le caratteristiche e le esigenze dei cittadini del Ventunesimo secolo nonché segnata dalle rughe di troppe battaglie perse e di un dibattito estenuante che si protrae da vent’anni e non ha prodotto altro che un bipolarismo rissoso e, il più delle volte, inconcludente.

Fin qui i meriti. Adesso passiamo a vedere gli errori, già commessi e nell’aria, dai quali il M5S si deve guardare con attenzione, anche perché, avendo quasi tutti i mezzi d’informazione schierati contro, nulla sarà perdonato ai suoi giovani e talvolta inesperti amministratori.

Partiamo dal caso più spinoso: quello che vede coinvolto il sindaco di Parma, Pizzarotti. Qui il M5S, e in particolare i suoi vertici, sta sbagliando tutto. Che senso ha, infatti, questa guerra a bassa intensità, con tanto di isolamento e di esilio di fatto, nei confronti di uno dei propri migliori amministratori? Pizzarotti è un fiore all’occhiello che il movimento dovrebbe esibire come dimostrazione tangibile della propria attitudine a governare nell’interesse dei cittadini, invece sta subendo da mesi un ostracismo intollerabile, da lui più volte denunciato e mai davvero affrontato ai piani alti della compagine pentastellata. Ebbene, sia chiaro ai vertici di Milano e alle punte di diamante del Direttorio che un eventuale addio di Pizzarotti, con conseguente distruzione del movimento in Emilia Romagna, fuoriuscita di numerosi attivisti della prima ora e, forse, anche di qualche parlamentare, uno scenario del genere non sarebbe indolore, in quanto renderebbe l’idea di un soggetto politico inaffidabile e caratterizzato da faide interne che non è in grado di comporre, dunque inadatto a governare in un contesto di instabilità globale nel quale a chi sta al timone sono richiesti nervi saldi, polso della situazione e capacità di unire anziché dividere di continuo con strappi ed esagerazioni d’ogni sorta.

Inoltre, c’è una questione essenziale che attiene al rispetto umano per la persona: non si può umiliare così un militante storico, un sindaco, una comunità, un gruppo che lavora bene da quattro anni e merita tutt’altro trattamento nonché la gratitudine di quanti oggi sono arrivati ad amministrare Roma e Torino anche grazie al lavoro, silenzioso e difficile, di chi si è assunto la responsabilità di rimettere in sesto una città, Parma, che quattro anni fa era praticamente fallita e costituiva una sfida ai limiti dell’impossibile.

L’altro caso decisivo è quello di Roma, dove sarebbe sbagliato gettare preventivamente la croce addosso a Virginia Raggi o giudicare i suoi atti da sindaco prim’ancora che li abbia compiuti ma dove è altresì necessario mettere in chiaro fin da subito che, come non abbiamo fatto sconti a destra e sinistra, non ne faremo nemmeno ai 5 Stelle, che la propaganda non ci interessa e che valuteremo le sue azioni in profondità e senza pregiudizi ma, al tempo stesso, senza farci ammaliare dalla retorica nuovista che non ci piace in Renzi né in nessun altro.

La Raggi ha annunciato che presenterà la giunta il prossimo 7 luglio: la attendiamo con piacere e con la massima apertura mentale possibile. Fatto sta che, riprendendo i consigli di Pizzarotti, le facciamo a nostra volta presente che la gestione di una città come Roma non può dipendere dalle scelte della Casaleggio Associati, che l’idea di imporre un contratto capestro anche agli assessori non sta né in cielo né in terra, che lo staff predisposto dalla medesima agenzia pubblicitaria più si fa gli affari suoi, meglio è per tutti e che l’autonomia decisionale è il primo valore da rivendicare e perseguire per il primo cittadino di una capitale dalla storia millenaria, oltretutto ridotta in condizioni pietose.

Infine, e questo è l’aspetto più importante, il tempo della protesta e degli slogan è finito. Adesso il movimento governa e al prossimo giro deve avere ben presente che non beneficerà della stessa benevolenza che ha consentito a una quasi sconosciuta consigliera comunale di espugnare Roma con oltre il 67 per cento dei consensi.

Al prossimo giro, Mafia Capitale e gli scandali che hanno coinvolto destra e sinistra saranno lontani nel tempo e fuori dai radar dei cittadini, dunque si tornerà alle urne valutando l’operato di Virginia Raggi e della sua giunta e se esso non dovesse rivelarsi all’altezza, la rivoluzione stellina non avrà un domani, nemmeno se, come penso, a Torino Chiara Appendino dovesse dare il meglio di sé.

Perché Roma è Roma, sui media internazionali si parla molto più di Roma che di Torino e un’azione di governo insufficiente nella capitale relegherebbe il movimento là dove lo avevamo incasellato con eccessiva fretta: nella mera dimensione protestataria, priva dello slancio necessario per trasformarsi in una forza credibile e in grado di assumere la guida del Paese.

Senza contare che l’atteggiamento sfoggiato negli ultimi giorni dai vertici stellini in merito alla legge elettorale è quanto di peggio si potesse immaginare: rifiutare in maniera pregiudiziale l’offerta di Bersani di cambiare insieme l’Italicum, probabilmente perché convinti che sia la legge ideale per provare a vincere da soli al secondo turno, induce la maggior parte degli osservatori a intravedere il cinismo e l’immaturità di questo soggetto, portandoli legittimamente a dubitare dell’effettiva consistenza del medesimo. L’Italicum è, infatti, una legge elettorale pessima, una fotocopia peggiorativa del Porcellum e, con ogni probabilità, verrà cassata dalla Consulta; pertanto, rinunciare a cambiarla insieme a una minoranza dem che, almeno su questo punto, ha tenuto la barra dritta e ha detto no, denota un’incapacità di dialogare con gli avversari che non fa ben sperare per il futuro. 

Una forza politica che non dovesse assumersi le proprie responsabilità, che non dovesse anteporre gli interessi del Paese ai propri e che dovesse tentare di approfittare di una stortura anti-demoratica per trarne un vantaggio elettorale perderebbe in poco tempo tutta l’apertura di credito della quale ha, giustamente, beneficiato in questi tre anni di difesa delle istituzioni e della Carta costituzionale.

Allo stesso modo, quest’isolazionismo inutile e controproducente è bene che finisca al più presto, sostituito da una sana logica di alleanze, basate su compromessi al rialzo, accordi costruttivi e, più che mai, su una netta presa di distanza dalle forze euroscettiche e lesive dell’unità europea e dei suoi princìpi fondanti quali l’UKIP di Nigel Farage.

In caso contrario, se la democrazia diretta dovesse rifiutarsi di incontrare quella rappresentativa, se il percorso di crescita dovesse arrestarsi, vittima delle proprie contraddizioni, e se la parte sana e propositiva di quel movimento, che è davvero eccezionale, dovesse soccombere sotto i colpi degli eccessi di chi si illude che basti un clic e una sparata in rete per sanare le sperequazioni di una società diseguale, in quel caso, la meritata affermazione di domenica scorsa altro non sarà stata che un fuoco di paglia, effimero come tutti i sogni tramontati prima dell’alba.

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