Gentiloni fallirà ma con eleganza e stile

Paolo Gentiloni, lo dico per conoscenza diretta, è una persona perbene e un politico accorto: uno che ha esperienza, sa di cosa parla, si esprime con un eloquio forbito, non insulta, non offende e ha fatto, negli anni, della sobrietà la propria cifra umana e politica.

Insomma, siamo al cospetto di un galantuomo che anche oggi, nel corso dell’abituale conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio, ha tenuto fede al proprio carattere mite, dimostrando un’abilità che nemmeno Gustav Thoeni nel compiere uno slalom gigante fra le domande scomode di inviati che, improvvisamente, dopo l’uscita di Renzi da Palazzo Chigi, sembrano aver riscoperto il gusto dell’irriverenza e dell’eclettismo, spaziando da un argomento all’altro come non avveniva ormai da anni. 

C’è anche da capirli, pover’uomini! Renzi non era certo il tipo da citazioni di Gilles Kepel e Olivier Roy, posti a confronto sulle grandi questioni del nostro tempo; oltretutto, c’erano, negli anni scorsi, due convitati di pietra francamente ineludibili: l’elezione del Capo dello Stato nel 2014 e il referendum costituzionale nel 2015. Quest’anno, invece, almeno apparentemente, calma piatta. Un po’ perché le urne, al pari della sora Camilla, tutti le invocano ma nessuno le piglia, in quanto nessuna forza politica si sente davvero pronta ad affrontare il lavacro elettorale, meno che mai i 5 Stelle, i quali, a Roma, stanno andando incontro a più difficoltà di quante persino i critici e i detrattori più accaniti potessero immaginare. Un po’ perché Mattarella è un tipo moderato, sobrio e garbato, quanto e più di Gentiloni, ma al tempo stesso è un uomo determinato e per nulla disponibile a lasciarsi scavalcare dall’uomo di Rignano: ha detto chiaramente che, prima di sciogliere le Camere, esige una nuova legge elettorale, armonica fra Camera e Senato, e difficilmente accetterà pateracchi o soluzioni improvvisate. 

Ora, detto fra noi, è probabile che si voti a giugno, in quanto il quadro politico è talmente devastato e ridotto a una marmellata informe che, con ogni probabilità, né le debolezze principali, PD e 5 Stelle, né quelle complementari, sinistra esterna al PD, Forza Italia e, tutto sommato, la stessa Lega di matrice lepenista, riusciranno a giustificare la permanenza in vita di una legislatura che si è, oggettivamente, conclusa lo scorso 4 dicembre, dopo tre anni sprecati a blaterare di legge elettorale, per poi produrre un mostro di nome Italicum, e riforme costituzionali, la cui fine ingloriosa, in qualunque altro paese occidentale, avrebbe segnato anche la fine ingloriosa della classe dirigente che le ha partorite.

In Italia, si sa, nessuno si dimette e nessuno si assume fino in fondo le proprie responsabilità, al punto che il principale artefice di questo capolavoro, Napolitano, detta ancora legge in Senato mentre Matteo Renzi detta ancora la linea del principale partito di maggioranza, con la Boschi sottosegretaria a Palazzo Chigi e una compagine di governo pressoché identica alla precedente, con qualche minimo ritocco di natura peggiorativa; pertanto, al povero Gentiloni non rimane che prendere garbatamente le distanze dal predecessore, parlare a ogni piè sospinto di coesione e ricucitura delle innumerevoli lacerazioni prodotte dall’azione renziana, giurare fedeltà alla causa con la stessa convinzione con cui l’avvocato Prisco avrebbe tifato Milan durante il derby della Madonnina, elogiare finanche l’ex titolare del dicastero delle riforme nonché emblema del successo ottenuto con l’operazione bancaria dello scorso anno, dire tutto e il contrario di tutto, smentirsi con regalità nobiliare nel corso della stessa frase, tenere il punto sul minimo sindacale e ammettere di essere una sorta di San Sebastiano, chiamato al martirio in attesa delle urne, ossia di un’agognata e inconfessabile liberazione da un incarico che, al momento, non mi sentirei di augurare nemmeno a Renzi o a Di Maio. 

Per dirla in breve, il nostro amico Gentiloni, con il suo crine canuto e ben pettinato, la sua antica saggezza da uomo passato in pochi decenni dalla sinistra extraparlamentare al rutellismo renziano e iper-governativo, la sua mal celata astuzia e la sua capacità di farsi da parte al momento opportuno, quest’uomo più volpino di quanto non si pensi e destinato a restare sulla scena politica ancora a lungo fallirà clamorosamente la prova del governo e su questo fallimento edificherà la propria gloria futura. Senza amici e senza nemici. Con uno stile cardinalizio che l’irruente toscano, nel suo provincialismo, non concepisce nemmeno, evidentemente ignaro delle sue virtù.

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