È morto Enzo Bearzot. L’ex ct dell’Italia campione del mondo a Spagna 1982, è scomparso all’età di 83 anni. Nato ad Aiello del Friuli il 27 settembre 1927 e prima di diventare allenatore della nazionale, è stato anche giocatore vestendo le maglie di Pro Gorizia, Inter, Catania e Torino.
Chi ha almeno 50 anni non può non provare un acuto malessere nell’apprendere la scomparsa di Enzo Bearzot. Già perché al suo nome è legato un avvenimento che è impossibile cancellare dalla memoria: il trionfo ai Mondiali di calcio del 1982 in Spagna. Fu la terza vittoria della Nazionale di calcio e forse la più importante e meritata. Prima, c’erano state le vittorie del 1934 e del 1938, con Vittorio Pozzo, un personaggio mitico che aveva fatto delle sue squadre un concentrato di supremazia nel mondo.
Poi, dopo quasi cinquant’anni, venne un friulano silenzioso, come tutti i friulani amante del buon bere, che non era stato un grande calciatore ma seppe dimostrarsi un grandissimo allenatore. Al Mondiale di Spagna fu capace di costruire una squadra stellare, che si dimostrò coriacea come il granito, convinta dei suoi mezzi e delle sue cognizioni. Il capolavoro bearzottiano, infatti, non fu tanto quello di costruire un gioco geometrico, come quello ad esempio dell’attuale Barcellona, ma fu quello di compattare lo spirito di squadra e i reparti. I nostri giocatori avevano buona tecnica ed alcuni primeggiavano nel mondo (Bruno Conti, Giancarlo Antognoni, Paolo Rossi) ma ben poco avrebbero potuto fare contro i brasiliani di Falcao o gli argentini di Maradona. Eppure fummo in grado di batterli entrambi.
Bearzot seppe comprendere che le carenze di quella squadra era necessario tramutarle in virtù. Una squadra “femmina”, come scriveva Gianni Brera parlando del gioco italiano dei Nereo Rocco, cioè un gioco che attende l’iniziativa dell’avversario, sa difendersi bene per poi infilzare l’avversario con micidiali “contropiede” (ma oggi si chiamano “ripartenze”, chissà perché). Per far ciò sfruttò il talento di due giocatori in assoluto: Antonio Cabrini, laterale difensivo ma con magnifiche escursioni sulla sinistra e Bruno Conti, classica “ala destra”, forse uno dei più grandi inventori calcistici mai nati nel nostro Paese. A supportarli nella realizzazione un centravanti di movimento come Paolo Rossi, in grado di riuscire determinante in quel Mondiale con i suoi gol.
Probabilmente il capolavoro tattico di Bearzot fu la decisiva vittoria con il Brasile. In quell’edizione, il regolamento prevedeva che la seconda fase del torneo si svolgesse con minigironi a tre. Noi capitammo nel peggiore, quello con Argentina e Brasile, vale a dire le formazioni considerati migliori del mondo (anche se, in effetti, non sempre lo sono). L’Italia batté prima l’Argentina (2-1) e poi produsse un capolavoro assoluto: il 3-2 con il Brasile dei Falcao, degli Eder, dei Socrates. Beaerzot, dopo un girone eliminatorio incertissimo e superato con grande fatica, aveva imposto il silenzio stampa alla squadra, dopo le feroci critiche ricevute. Si prese la sua rivincita. La vittoria in semifinale con un fortissima Polonia (2-0) e, infine, con la finale con la Germania (3-1) arrivarono quasi di slancio, come normale prosecuzione della poderosa spinta caratteriale che il friulano di poche parole aveva prodotto.
Fu un trionfo inaspettato che, di colpo, proiettò Bearzot nell’empireo degli eroi, proprio lui così schivo e intrattabile, ma anche un signore di altri tempi. Sull’aereo presidenziale che li riportava in patria, Bearzot fu impegnato in una pugnace partita a scopone con Sandro Pertini, che aveva tifato come un matto durante la finale di Madrid, vicino ad un Juan Carlos un po’ stupito e ad un tetro cancelliere tedesco Helmut Schmitd. Entrambi con l’eterna pipa in bocca, Bearzot e Pertini furono un po’ l’icona di quei Mondiali, l’uno passionale ed estemporaneo, l’altro cogitabondo ed introverso. Due personaggi che si completavano l’un l’altro per rimanere impressi nei nostri ricordi.