Addio A Ghiggia, la piccola ala che fece piangere un popolo

Alcides Ghiggia, l’autore del gol del secolo, fu campione del mondo con l’Uruguay e giocò con la Roma, il milan e come oriundo nella nazionale italiana

ROMA – Alcides Ghiggia lo avevo incontrato nella perferia di Montevideo, a Las Piedras, in una scalcinata agenzia di scuola guida capeggiata da un corpulento e burbero imprenditore manager. Per sopravvivere rilasciava interviste. Lo misi in contatto con la Roma e fu invitato per festeggiare gli ottant’anni della squadra che poi coincidevano con i suoi. Era arguto e la sua passione restava il calcio. Seguiva il campionato italiano, ricordava i derby, le lunga braccia del portiere laziale Bob Lovati e il suo amico Arcadio Venturi compagno di squadra nella Roma e in onore del quale ha dato a suo figlio il nome Arcadio. Ricordava le uscite notturne in automobile nella Roma della Dolce Vita e il vecchio campo di allenamento della Romulea, dietro via Sannio, in una Roma popolare ma allo stesso tempo ammaliante, in un tempo lontano, con un calcio lontano in cui contava l’estro. Io ricordo i suoi occhi, concentrati, neri, un po’ malinconici ma furbi. Come quelle discese sulla fascia nel Maracanà agghindato per la festa del grande Brasile che vide invece la vittoria del piccolo ma tenace Uruguay, organizzato per resistere con il suo leader e capitano Obdulio Varela, detto il Jefe – il Capo – ancora un mito a Montevideo e dintornie. Un piccolo Uruguay che però poteva affidarsi alla genialità di Juan Alberto Schiaffino e Alcides Ghiggia che utilizzò, quel 16 luglio 1950, tutta la sua esperienza di bambino che giocava in strada e che doveva usare intelligenza e arguzia per avere la meglio dei più grandi. Oggi ci lascia ma resteranno immortali e da esempio le sue finte e il suo azzardo nel lanciarsi in corsa con tutte le sue forze, nel far intendere a tutti gli altri calciatori in campo e ai 200.000 spettatori che avrebbe servito il pallone al centro al compagno Schiaffino, il più dotato tecnicamente, per poi invece provare il colpo balistico in un pertugio infinitesimale e riuscire nell’impresa di gonfiare la rete, ammutolire lo stadio, cambiare la storia della partita con più pubblico nella storia del calcio, far piangere un’intera nazione. E dimostrare che la storia degli uomini e dell’umanità può avere esiti inaspettati e cambiamenti rivoluzionari; che, anche se piccoli e per niente potenti, se si applicano intelligenza e creatività a un gruppo organizzato, compatto e tenace, si possono raggiungere mete impensate.  Mai abbassare la testa. Grazie Alcides, grazie Uruguay, grazie Obdulio. Cumplimos solo si somos campeones! Hasta siempre Ghiggia

Ripubblichiamo un’intervista esclusiva de Il Romanista ad Alcide Ghiggia realizzata nel dicembre del 2006 da Gianni Tarquini e Tonino Cagnucci

Ghiggia: «Maracanà ammutolito solo da tre persone: Sinatra, il Papa ed io» 

«Mi costa ricordare il Maracanà, è la mia cosa più intima». E’ la cosa più paradossale e quindi più bella che dice Alcides Edgardo Ghiggia. Ottanta anni oggi («Grazie per gli auguri che però io faccio alla Roma che ha la mia età»). E’ oggi che si festeggia il compleanno della storia del pallone. Perché la sua cosa più intima è anche quella più pubblica che Ghiggia ha fatto: il gol più importante nella storia del calcio. Al Brasile, Maracanà, 200.000 persone dentro, la partita che vale il Mondiale. Nel ’950. Al Brasile infinitivamente più forte basta un pari, va pure in vantaggio, l’Uruguay piccolo-piccolo si trasforma gigante col tiro sbilenco di Ghiggia. Il gol del siglo. La partita delle partite poi finisce 2-1 per la Celeste. La gente per strada e nello stadio si uccise.

«Non ho mai visto così tanta tristezza, nel momento più bello della mia carriera, della mia gente a casa. Le famiglie dell’Uruguay e quelle del Brasile. Non ho mai visto occhi così feriti come quelli». Quasi per dimenticarseli è venuto alla Roma, otto anni, una vita (un’altra) un altro riserbo profondo: da quando se ne è andato, non ci è più tornato. Ma è quasi come quel gol. Non se ne parla perché «certe cose sono intime». Alcides Ghiggia vive a Las Piedras, una ventina chilometri da Montevideo, dove il Parlamento l’aspetta oggi per i tanti auguri a te. 

Ottanta anni e sentirli per forza, come si vive?

«Conta la salute e quella ce l’ho. Come i ricordi, anche se io non guardo indietro. Mai».

Vero visto che in Italia non ci torna dal…

«Era il 1990, per i Mondiali. Ma sono andato a Milano. Stavo con Gianni Minà, lui sa della cultura del Sudamerica. Fece di tutto per riportarmi in quei giorni a Roma. Ma non se ne fece niente. Non potevo».

Da quant’è che non viene a Roma?

«Da quando sono tornato a Montevideo. Dal 1963».

Sono più di quarant’anni, adesso lei e la Roma ne contate 80, è il momento per ritrovarsi.

«Se c’è la festa della Roma la prossima estate mi piacerebbe tornare. Stavolta sì».

Ma in tutto questo tempo nessuno l’ha cercata. Tifosi, magari?

«I tifosi della Roma mi hanno cercato anche dalla Gran Bretagna, dal Canada, da dovunque, oltre che dall’Italia. I tifosi della Roma mi hanno regalato la bandiera che tengo a casa. Nel salotto».

E Ghiggia la Roma la segue ancora?

Dà la risposta più veloce «Nel 4-0 col Palermo mi ha impressionato, mi piace come gioca, mi piace tanto».

Chi di più?

«Totti. Totti e Montella»

Totti a chi somiglia?

«Dei miei tempi? A nessuno, i tempi non coincidono, i campioni non tornano. Però se vuoi un nome: Dino Da Costa. Io con Dino giocavo, Totti lo vedo per televisione, l’ho visto sempre in tv. Credo sia lui la bandiera della Roma».

Ghiggia lo è stata?

«Ghiggia quando ha giocato in Europa ha realizzato il sogno che ha avuto dopo il Maracanà».

E il Maracanà lo sogna?

«Sono cose tanto intime».

Quelle pubbliche: come fu venire alla Roma?

«Tante ore di volo, il dispiacere di lasciare il Penarol perché il Penarol è come la Roma, una squadra “attaccata” a dove gioca. C’era il presidente Sacerdoti, mi ricordo».

Mi ricordo… la prima cosa di Roma.

«Moderna dentro una stessa città. Mai più vista prima»

Né dopo: l’ultima immagine che ha di Roma?

«Le Olimpiadi».

Il compagno di sempre.

«Arcadio Venturi. Mio figlio si chiama Arcadio».

Perché?

«E’ lui che mi ha fatto sentire a casa quando non lo ero».

Roma, quegli anni e Ghiggia: le cronache e la storia significano Dolce Vita.

«Ricordo che non potevo uscire perché c’erano i paparazzi (testuale, ndr) , mi seguivano sempre, mi rendevano la vita impossibile».

Eppure sembrava così facile: le donne, le ragazze innamorate del baffo rococò.

Ride. «E’ capitato. Avevo moglie e figli, certo, spesso si presentavano delle occasioni…». Ride.

La miglior partita giocata a Roma?

«Il 3-0 alla Lazio, gol a Lovati».

I ricordi del derby.

«La cosa più bella che può succedere in assoluto a un giocatore è vincere un derby a Roma. La gente, i tifosi il calore, mi volevano bene. Ed io ero contento perché loro erano contenti di me».

Roma-Lazio o Penarol-Nacional?

«Quasi lo stesso, sono i due derby del mondo. Almeno i miei».

Che differenza c’era tra romanisti e laziali, che significava derby a Roma?

«La Roma aveva i tifosi, la Lazio no. La Roma era la squadra del popolo, la Lazio di qualcuno».

La Coppa delle Fiere vinta, un altroricordo.

«Sì, però mi ricordo di più che quell’anno speravamo di vincere la Coppa Italia».

Perché lasciò Roma?

«Perché l’allenatore nuovo (non fa il nome, ndr) non mi volle. Mi cercò il Milan, andai a vincere uno scudetto prima di tornare a casa».

Il giocatore più forte all’epoca?

«Charles».

Quello di sempre.

«Uno come me è difficile incontrarlo».

E’ vero che la gente comprava i biglietti solo di Monte Mario o Tevere per vedere più da vicino Alcide Ghiggia?

«Sì è verdad».

Come il gol del siglo.

Pausa. «Quella è stata la cosa mas importante della vida mia».

Le capita di sognarlo?

«No, mi costa molto ricordare il Maracanà. E’ la mia cosa più intima».

Tutti se ne ricordano e per sempre ne parleranno.

«Era il campionato del mondo…».

A parte quello, la cosa più bella fatta in carriera?

«Un gol alla Lazio».

Tipo quello fatto a Barbosa il 16 luglio 1950. E’ vero che dopo ci è diventato amico?

«Sì. Visse male male dopo quella partita, il Brasile scaricò tutte le colpe su di lui».

Varela il suo capitano, l’uomo che guardando in faccia “uno a uno” i 200.000 del Maracanà dopo il vantaggio loro vi portò alla vittoria, finita la gara si ubriacò. Ma per dimenticare, per il dispiacere. E’ vero?

«Sì. Lui era uno dei più sensibili, il più dispiaciuto per tutto quel dolore che scoprì intorno. Era una grande persona».

Oggi si trovano giocatori così?

«C’è differenza nei tempi».

Ghiggia s’è mai dispiaciuto, pentito di aver vinto La Partita?

«A me come a Varela dispiacque vedere un intero stadio, un intero Paese piangere. Si ammazzarono le persone. Ma contemporaneamente il nostro popolo stava vivendo il giorno più glorioso».

Come le cambiò la vita?

«Andai a Roma».

Quando ci tornerà?

«Per gli 80 anni della società. Mi auguro di venire lì a festeggiare lo scudetto. L’Inter è forte ma es possibile».

Che sogno ha Ghiggia?

«Questo. Lì con lo scudetto».

A 80 anni ha paura di morire?

«No. Nella vita c’è sempre tempo per imparare nonostante l’età. La vita continua e non mi guardo indietro».

Però il gol del siglo… Quando disse che «Soltanto tre persone hanno ammutolito il Maracanà…».

Interrompe e continua: «il Papa, Frank Sinatra e io».

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