La Juve dieci anni dopo

ROMA – Riavvolgiamo il nastro del nostro racconto sportivo e torniamo con la memoria a dieci anni fa, ai giorni di Calciopoli che scossero il calcio italiano e sconvolsero letteralmente l’ambiente juventino e i suoi tifosi. Ripensiamo alle ore di angoscia nel ritiro di Coverciano, con la Nazio-Juve di Lippi duramente contestata e capitan Cannavaro insultato prima di essere acclamato come un eroe nazionale appena un mese dopo, quando con ogni pronostico sollevò al cielo di Berlino una Coppa del mondo “ch’era follia sperar”.

Strana la vita, direte voi: certamente sì. Strana e imprevedibile, in quanto un giorno toglie e un altro giorno dà, non sempre in egual misura, non sempre risarcendoci per le sofferenze patite e talvolta andando al di là del nostro effettivo credito con la fortuna.

Ebbene, prendete la Juve di allora, la cui spina dorsale si sarebbe ritrovata in finale a Berlino, in parte in maglia azzurra, in parte sotto le insegne dei “bleus”, prima di dissolversi a causa del rifiuto di alcuni fuoriclasse stramilionari di affrontare il Purgatorio della Serie B, andando a giocare in stadi di provincia ritenuti indegni della propria fama e del proprio valore sportivo.

La Juve retrocessa, la Juve nella polvere, la Juve che, per la prima volta nella sua storia, avrebbe giocato tra i cadetti, una squadra distrutta e una dirigenza da ricostruire, fra preoccupazioni, ansie e timori per il futuro. Anni difficili, quelli successivi: una pronta risalita in A e qualche buon risultato sotto la sapiente guida del nuovo re di Leicester Claudio Ranieri, poi il buio di due stagioni di anonimato, con un susseguirsi di allenatori che mandò in confusione una tifoseria abituata a ben altri livelli di stabilità e solidità gestionale.

Infine, sotto la presidenza di un nuovo Agnelli, Andrea, figlio del dottor Umberto, affidandosi a un sergente di ferro come Conte, senz’altro poco simpatico ma indiscutibilmente vincente, la Juve ha ripreso a dominare. Tre scudetti di fila, vari record, tra cui quello di punti, 102, nell’ultima stagione del tecnico salentino, e quello di un’intera annata senza sconfitte (nel campionato 2011-2012) come solo il Perugia del miracoloso secondo posto del ’79 e il Milan degli Invincibili avevano saputo fare,  e soprattutto il passaggio della fascia da capitano da Del Piero a Buffon e il rilancio di una squadra che per cinque anni aveva dovuto assistere impotente ai successi delle milanesi.

Tuttavia, è con l’arrivo di un garbato gentiluomo livornese su cui pochi avrebbero scommesso un centesimo che la Juve ha compiuto il salto di qualità. Perché Conte vinceva, sì, ma non convinceva fino in fondo, nel senso che la sua Juve era un rullo compressore ma alla fine stancava, essendo il suo nocchiero totalmente privo di fantasia e interessato unicamente al risultato. 

Allegri è l’opposto: questa Juve, sapientemente plasmata nell’ultimo anno con l’innesto di talenti quali Dybala, Zaza, Khedira, Rugani e Mandzukic, più alcuni giovani di sicuro avvenire come Lemina e Alex Sandro, questa Juve ha raggiunto la pace dei sensi. Se Conte era il classico allenatore martello, Allegri è, al contrario, il ritratto della serenità, e basta osservare gli sguardi dei suoi ragazzi per comprendere il segreto di queste vittorie a ripetizione.

Più che un gruppo di campioni, Max ha costruito una famiglia, nella quale non esistono screzi, rivalità o inimicizie, nella quale tutti si sacrificano, accettano le gerarchie e rispettano i ruoli, nella quale non ci si arrende mai e si lotta su ogni pallone ma senza rabbia, con la cognizione dei propri mezzi e il desiderio di superarsi ogni volta e di andare al di là dei propri limiti. 

Una corazzata in abito da sera, una danza elegante lunga un campionato, un valzer condotto con i ritmi di un ballo da discoteca, un carro armato dal cuore tenero che, ogni tanto, mette dei fiori nel proprio cannone e concede a un Toni a fine carriera e a un Verona già retrocesso di togliersi la soddisfazione di vincere, così come l’anno prima aveva regalato tre punti a un Parma per cui quel successo ha rappresentato la stagione, il riscatto, la dignità e la speranza di tornare grandi domani. Nessuna combine: puro buonsenso. La Juve è scesa in campo al Tardini e al Bentegodi in pantofole e con la testa rivolta a traguardi più ambiziosi, ha tirato il fiato e non si è dannata l’anima di fronte ad avversari per i quali quella vittoria significava tutto: una prova di maturità, l’accettazione di quello stop che ogni tanto ci sta bene, che si staglia come un’eccezione nel cielo di una normalità straordinaria e rende umani. E qui sta la grandezza di Allegri: in questo suo essere un timoniere sereno, un capitano che governa ma non comanda, una sorta di Enrico Letta dopo anni di renzismo, una rivoluzione di velluto applicata allo sport, l’apoteosi della gentilezza dopo il pur mirabile eccesso contiano.

La Juve vince perché tutti si sentono protagonisti: da capitan Buffon, unico reduce di quell’anno di Purgatorio fra il Crotone e l’Albinoleffe, al povero Rubinho, che non gioca mai ma c’è e gode del rispetto di tutti i compagni. Vince perché è frizzante e non annoia, perché sa gestire le partite, perché rispetta i rivali, perché esercita il proprio potere senza digrignare i denti e senza tendere mai ad umiliare l’avversario, riconoscendo anzi i suoi meriti, come nel caso dell’onesto Milan di Brocchi che ieri sera all’Olimpico, al termine di una stagione travagliatissima, ha dato il massimo e  nel primo tempo avrebbe meritato almeno un gol.

Dieci anni dopo, possiamo dire senza remore che quel Purgatorio purificatore ha fatto un gran bene ad un ambiente che aveva bisogno di ricostruirsi un’immagine, specie se si considera che senza quella tragedia a lieto fine probabilmente non sarebbero mai sbocciati i Chiellini e i Marchisio che oggi, all’apice della carriera, danno il meglio di sé e si proiettano verso una stagione che tutti i tifosi bianconeri si augurano venga coronata dalla conquista della coppa dalle grandi orecchie.

La vita toglie, la vita dà e ciò che ha restituito a questa Juve vale più di qualunque vittoria: la pace e l’armonia con se stessa, che è di per sé il più grande trionfo cui ciascuno di noi possa ambire.

P.S. A proposito di miracoli sportivi, ricorre quest’anno il venticinquesimo anniversario dello scudetto della Samp del presidente Mantovani e del mitico Vujadin Boškov: anche loro inseguivano un sogno, anche loro seppero trasformarlo in realtà e a quella squadra mitica, ai limiti dell’epica, va il mio pensiero di sportivo, con gratitudine e riconoscenza per un’impresa che tuttora viene giustamente celebrata.

 

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