Benvenuti, Griffith e l’America dei “paisà”

Era ancora l’America del reverendo King e delle marce per i diritti civili, era l’America delle proteste giovanili contro l’autoritarismo dello Stato e la barbarie della Guerra del Vietnam che stava costando la vita ad un numero impressionante di ragazzi, era l’America che sperava di affidarsi a Robert Kennedy per poter voltare pagina, era insomma l’America di prima del ’68, quando le speranze di un decennio di lotte vennero vanificate dalla “maggioranza silenziosa” che, preferendo il conservatore Nixon al progressista Humphrey dopo l’assassinio di Kennedy, avrebbe condotto il paese nel baratro della vergogna e del disonore. 

Era il 17 aprile 1967, cinquant’anni fa, quando l’istriano Nino Benvenuti e l’americano Emile Griffith, di cui solo molti anni dopo si è venuta a conoscere la bisessualità, tenuta nascosta con scrupolo per evitare di subire discriminazioni, si affrontarono al “Madison Squadre Garden” di New York per contendersi il titolo mondiale dei pesi medi. 

La voce narrante di quel duello ai limiti dell’epica fu quella di Paolo Valenti: calda, avvolgente, martellante, in grado di condurre ogni ascoltatore ai bordi di quel ring e di far vivere ad un Paese intero il sogno di salire sul tetto del mondo attraverso uno dei propri figli prediletti, riaccendendo antiche speranze e privandoci, almeno per una notte, del provincialismo atavico che ci ha sempre caratterizzato, specie nei confronti degli Stati Uniti. 

Vinse Benvenuti al termine di un incontro teso, difficile, contro un avversario ostico e determinato a vendere cara la pelle, ben sapendo di avere solo i suoi guantoni per scacciare i pregiudizi legati al colore della pelle e i sospetti che cominciavano ad addensarsi in merito al suo orientamento sessuale. Per questo lottava con ardore, per questo era arrivato addirittura, cinque anni prima, a massacrare di botte, durante un incontro, un avversario che si era permesso di dargli della “checca”, al punto che il cubano Benny Paret, uscito dal quadrato in stato di incoscienza, si spense nove giorni dopo in seguito ai violentissimi pugni ricevuti da un ragazzo desideroso di fargli pagare un’accusa che gli avrebbe potuto stroncare la carriera. 

Di quella notte newyorchese di mezzo secolo fa, oltre alla passione e all’entusiasmo sportivo, rimangono le emozioni e i sentimenti di riscatto della vasta comunità italiana emigrata oltreoceano per costruirsi un avvenire migliore: i “paisà”, i lustrascarpe dei capolavori di Rossellini, gli umili, gli ultimi, gli emarginati che quel giorno, al pari dei connazionali rimasti in Patria, si sentirono a loro volta campioni del mondo, riscoprendo una passione e un orgoglio che credevano ormai sopiti per sempre. 

Anche per questo non lo dimenticheremo mai, anche per questo quell’incontro è passato alla storia come l’esaltazione dei migliori valori dello sport, capace di regalare gioia e di cementare, poi, un’amicizia che ha resistito al tempo, agli acciacchi sopraggiunti con l’avanzare dell’età e persino alla scomparsa di un uomo, Griffith, straordinariamente arrabbiato e magnificamente fragile.

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