Caro Giro, cento di questi giorni

E sono cento, caro ed eterno Giro! Cento anni di meraviglia, cento anni di tappe, cento anni di sudore e fatica, cento anni di vincitori e di sconfitti, cento anni di imprese e di tragedie. 

Cento anni in cui l’Italia è cambiata in maniera impressionante, trasformandosi da paese povero e agricolo in una delle potenze industriali del G7. Cento anni da quel 13 maggio 1909 quando questa corsa, organizzata dalla Gazzetta dello Sport (da qui il colore rosa che contraddistingue la maglia del primo in classifica e, infine, del vincitore), prese avvio in un’Italia in cui ancora si andava a cavallo o in carrozza, l’automobile era un lusso per pochi super-ricchi e il calcio viveva ancora la sua fase eroica, pionieristica ed aureolata di leggenda. 

Cento anni in cui è pressoché scomparso il dilettantismo, cedendo il passo ad un professionismo a tratti esasperante e, purtroppo, talvolta, foriero di tragiche scorrettezze come il ricorso al doping, vera piaga degli ultimi vent’anni nonché causa di drammi umani e sportivi difficili da descrivere a parole.

Cento anni per raccontare una storia, una Nazione, il suo costume e le sue tradizioni; cento anni per guardarsi allo specchio e rendersi conto di quanto siamo cambiati, di quanto siano cambiate le strade, le biciclette, le maglie indossate dagli atleti e anche di quanto fossero eroici quei campioni delle origini, costretti ad affrontare tappe di quattrocento chilometri portandosi dietro biciclette pesanti quindici chili, lungo strade spesso sterrate e impervie che più impervie non si sarebbe potuto. 

Cento anni di un romanzo popolare che ha avuto il merito di cucire lo Stivale e di esserci sempre, tranne negli anni barbari delle due guerre mondiali. Il Giro, infatti, c’era negli anni Venti, quando andavano per la maggiore i miti di Girardengo, amico d’infanzia del bandito Sante Pollastri, e successivamente della prima appassionante diarchia dello sport italiano, con il dualismo fra Alfredo Binda e Learco Guerra. E c’era negli anni Trenta, quando Gino Bartali lo vinse a soli ventun  anni e si rifiutò di rendere omaggio al Duce, prima del duello rusticano e venato di epica con il piemontese Fausto Coppi. 

E proprio a Coppi è legata una delle imprese più importanti e giustamente celebrate della storia del ciclismo: la Cuneo-Pinerolo del 10 giugno del ’49, quando il radiocronista Mario Ferretti non riuscì a contenere il proprio entusiasmo ed esclamò al microfono: “C’è un uomo solo al comando: la sua maglia è bianca e celeste, il suo nome è Fausto Coppi”. Leggenda vuole che quel giorno un gruppo di giornalisti che seguiva la corsa rosa si fosse fermato a pranzo in un ristorante lungo il tragitto, lasciando il Campionissimo nella sua fuga solitaria verso il trionfo, e che quando uscirono, dopo aver mangiato dall’antipasto al dolce, stesse passando il sesto. 

E come dimenticare il Montanelli inviato a seguire il Giro, nel ’47 e nel ’48, in quanto ancora in punizione nel nuovo Corriere anti-fascista per via delle sue simpatie giovanili nei confronti del regime, benché quello stesso regime lo avesse poi incarcerato e condannato a morte? Come dimenticare la sua definizione di “Giro saragattiano” nel ’48? Come non emozionarsi al cospetto delle sue cronache che trasudavano politica ad ogni rigo, animate da una passione spontanea, genuina, limpida e immarcesciscibile, con lo sport a fare da cornice al suo racconto di un Paese che in quegli anni si stava dotando della sua splendida Costituzione e stava dando vita alla sua prima legislatura repubblicana all’insegna del centrismo democristiano? 

E come non tener presente l’errore di valutazione di Enzo Biagi, il quale, sempre nel ’48, si lasciò andare ad un commento lirico-nostalgico, preconizzando la fine di Bartali, “raggiunto dalla vecchiaia sul Pordoi”, salvo essere smentito due mesi dopo dal trionfo di Ginettaccio in terra di Francia? Quel Giro fu vinto da Fiorenzo Magni, altro straordinario interprete del ciclismo corsaro di quegli anni, prima che sorgesse la stagione dei Gaul (l’angelo del Bondone che vinse nel ’56 pedalando fra neve e gelo) e degli Anquetil e prima che Sergio Zavoli, con il Processo alla tappa, desse alla corsa una narrazione scanzonata ma fedele, con Biagi e Montanelli ad affrontarsi coraggiosamente, sulla base di una dialettica serrata ma all’insegna della stima reciproca, dell’amicizia e di un dualismo culturale non meno affascinante della mistica sportiva già descritta. 

E poi Gimondi, Merckx, Saronni, fino ad arrivare alle imprese dello sventurato Pantani (memorabile il suo successo al Santuario di Oropa nel ’99, pochi giorni prima della tragica ed ingiusta squalifica per doping che lo colpì), alle volate di Cipollini e Petacchi, all’affermazione di Cunego nel 2004 e alle recenti tragedie di Weylandt, al Giro del 2011, e di Michele Scarponi, la cui scomparsa, due settimane fa, in un tragico incidente stradale si farà sentire ad ogni metro, tanto sulle strade quanto nei commenti di questo magnifico libro con tanti capitoli ancora da scrivere. 

Vedremo all’opera Nibali e gli altri fuoriclasse di questa stagione globale, in cui bisogna dire che almeno il Giro, al netto dei tanti scandali che lo hanno travolto, abbia mantenuto un minimo di credibilità. E ci innamoreremo della sua bellezza caparbia, della sovrumana fatica dei suoi protagonisti, delle sue volate e di tanti gregari di cui la storia, forse, non darà conto ma senza i quali nessun campione, nemmeno Coppi e Bartali, avrebbe mai potuto conseguire i traguardi che ha raggiunto. 

Cento di questi giorni, caro Giro, ultimo baluardo di un talento individuale genuino, costantemente al servizio di una collettività in grado di esaltarne la grandezza.

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