La 28ª edizione di Ecomondo ha chiuso i battenti a Rimini lasciando un messaggio chiaro: la transizione ecologica non è più un tema di nicchia, né un capitolo accessorio delle politiche industriali. È ormai il cuore di una nuova economia che non contrappone ambiente e impresa, ma li fonde in un’unica strategia di sviluppo.
L’aumento dei visitatori, il numero crescente di delegazioni internazionali e il livello tecnologico degli espositori mostrano una realtà ormai consolidata: la green economy è diventata un settore industriale maturo, capace di attrarre capitali, competenze, idee e nuove forme di impresa.
Ciò che colpisce, osservando Ecomondo dall’esterno, è come il linguaggio della sostenibilità sia radicalmente cambiato. Non si parla più solo di ridurre l’impatto ambientale, ma di costruire modelli produttivi circolari, di trasformare i rifiuti in materie prime, di sviluppare tecnologie capaci di prevenire il danno invece di limitarne le conseguenze. Oggi la sostenibilità è un fatto industriale, economico e tecnologico prima ancora che ambientale. Le aziende non cercano più certificazioni per obbligo, ma per competitività: chi non innova, semplicemente esce dal mercato.
In questo scenario, l’Italia ha un ruolo sorprendentemente più forte di quanto si creda.
Siamo tra i primi Paesi al mondo nel riciclo industriale, nella bioeconomia e nella trasformazione dei materiali. Abbiamo un tessuto manifatturiero che, proprio perché fatto di piccole e medie imprese, riesce a convertire i processi con maggiore agilità rispetto alle grandi filiere internazionali.
Eppure, continuiamo a sottovalutare la nostra capacità, quasi come se fossimo abituati a vedere il Paese come ritardatario anche quando i numeri dicono il contrario. L’Italia della green economy esiste, produce, investe, esporta, ma spesso non si racconta. Il problema non è ciò che facciamo, ma quanto poco lo valorizziamo.
Ecomondo ha mostrato anche un’altra verità: la sostenibilità non è più confinata alle tecnologie energetiche, ma riguarda tutto. Agricoltura, edilizia, mobilità, gestione dei rifiuti, digitalizzazione, politiche urbane, salute pubblica, industria pesante. La green economy è ormai una rete di settori interconnessi che generano occupazione qualificata e attirano investimenti esteri. Non è l’alternativa al sistema economico tradizionale: ne è l’evoluzione inevitabile.
La vera sfida, però, inizia ora. Una fiera può accendere i riflettori, ma non può garantire il passo successivo. Serve un Paese capace di trasformare prototipi in filiere, ricerca in industria, sperimentazione in infrastrutture. La transizione ecologica non ha bisogno solo di visione, ma di continuità, di politiche stabili, di una narrativa collettiva che permetta alle imprese di investire a lungo termine.
La sostenibilità non è un annuncio, è una struttura economica che si costruisce mattone dopo mattone.
C’è un’Italia che lo ha capito, lo ha già dimostrato e ora deve decidere se restare protagonista o tornare spettatrice. Il successo di Ecomondo non è soltanto il segno di una crescita del settore, ma lo specchio di un cambiamento culturale: oggi non si discute più se la transizione sia necessaria, ma chi la guiderà. Chi saprà innovare, misurare, certificare, comunicare, costruire.
Se c’è una frase che riassume questa edizione è che non esisterà più un’economia che non sia green. Chi la considera ancora un obbligo, un vincolo o un costo, ha già perso la partita. Chi la considera un’opportunità, ha già iniziato a vincerla.


