La COP30, attesissima per il suo potenziale ruolo di svolta nel difficile cammino verso una reale transizione ecologica, si è chiusa con un accordo che ha lasciato dietro di sé più ombre che luci.
Nonostante la retorica ottimistica che tradizionalmente accompagna la chiusura dei summit internazionali, il testo finale appare distante anni luce dalle ambizioni che avrebbero dovuto guidare questa conferenza.
Il mondo, semplicemente, non può permettersi un passo così timido.
Un accordo che non affronta il nodo centrale: i combustibili fossili
Il punto più critico è il mancato impegno sul phase-out delle fonti fossili. L’accordo si limita a ribadire, in modo vago, la necessità di “accelerare” gli impegni già presi due anni fa, senza introdurre un’indicazione chiara, una scadenza condivisa o un percorso obbligato.
È come parlare di una maratona senza indicare la linea del traguardo.
La questione diventa ancor più preoccupante se si osserva chi non è realmente presente al tavolo delle responsabilità: i grandi inquinatori globali non hanno dato il contributo decisivo che ci si attendeva. Le economie che emettono la maggior quantità di CO₂ continuano a traccheggiare, frenate da conflitti geopolitici, interessi interni e dipendenze strutturali che nessun accordo sembra in grado di scalfire.
Il ruolo ambiguo della Cina
Uno dei casi più emblematici è la Cina. Da un lato si presenta come leader mondiale nella produzione di veicoli elettrici — un settore in cui domina per innovazione, volumi e capacità industriale. Dall’altro, però, quella stessa industria rimane fortemente ancorata al carbone.
Un paradosso che rappresenta perfettamente la contraddizione di questa fase storica: si spinge sull’elettrico, ma si alimentano le fabbriche con il combustibile più inquinante del pianeta.
È un corto circuito logico e politico che rischia di vanificare gli sforzi globali: l’elettrificazione, senza una produzione energetica realmente pulita, non è la soluzione risolutiva che si tende a raccontare.
Un’Europa che non guida ma inseguе
Un altro grande assente, paradossalmente, è stata l’Europa. Nonostante le dichiarazioni di intenti e il ruolo che avrebbe potuto — e dovuto — esercitare come motore della transizione globale, il Vecchio Continente non ha mostrato quella forza negoziale capace di indirizzare l’azione collettiva.
Il risultato è un accordo compromissorio, ottenuto al ribasso per evitare il fallimento formale della conferenza, ma che non risponde affatto all’urgenza climatica.
Il tempo della diplomazia accomodante è finito: servirebbe una leadership capace di imporre temi, ritmi e scadenze, non di adattarsi al minimo comune denominatore.
Promesse finanziarie insufficienti
Sul piano del supporto economico ai Paesi più vulnerabili, il documento si limita a un impegno generico: triplicare le risorse entro il 2035.
Una promessa lontana, troppo vaga, troppo diluita, soprattutto di fronte a un’emergenza climatica che sta già oggi devastando intere regioni con siccità, alluvioni, desertificazione e perdita di biodiversità.
Senza meccanismi di finanziamento chiari, strutturati e immediatamente operativi, la transizione rischia di diventare un privilegio per pochi e un miraggio per molti.
Rischiamo di perdere la partita del clima
Guardando il quadro complessivo, l’impressione è che la COP30 abbia ribadito un copione già visto: buone intenzioni dichiarate, decisioni deboli, compromessi al ribasso.
Eppure, la scienza è chiara: per mantenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5°C servono azioni drastiche, immediate e globali.
Se i Paesi con maggiori responsabilità storiche e attuali continuano a frenare, se l’industria elettrica mondiale continua a dipendere da fonti fossili, se gli impegni finanziari rimangono vaghi, allora la transizione rischia di trasformarsi in una promessa non mantenuta.
E a quel punto non sarà una questione di negoziati falliti, ma di futuro compromesso.
Un futuro che non possiamo permetterci di perdere.


