Luciano Gallino smaschera le magagne del turbo-capitalismo neoliberista

Nel suo ultimo libro, il sociologo fornisce cifre che smentiscono clamorosamente il pensiero unico neo-liberista, svelando come, in realtà, sia in atto un poderoso tentativo di arretrare la società italiana ai primordi dell’industrializzazione, abolendo la democrazia

Che cosa direste leggendo che il deficit di bilancio della media dei Paesi UE, cresciuto dieci volte tra il 2007 e il 2009, passando dallo 0,7% al 7%, non è affatto dovuto all’aumento della spesa sociale, che ha mantenuto un andamento costante, ma esclusivamente all’effetto prodotto sui bilanci pubblici dalla crisi delle banche, stimato in circa tre trilioni di euro? E se aggiungessimo che, con riferimento specifico all’Inps,la Cassa che riceve i contributi dei lavoratori dipendenti è in attivo di dieci miliardi di euro, secondo i dati del bilancio 2011?

Forse rispondereste che tutto ciò non è vero, oppure che i grandi quotidiani come il «Corriere della sera», che grandi economisti come Alesina&Giavazzi,la Confindustria e perfino i sindacati vi hanno preso tutti per il naso?

LA GRANDE BUGIA. Se leggete l’ultimo libro del sociologo Luciano Gallino (professore emerito nell’Università di Torino, autore di decine di saggi sulle tematiche legate al lavoro), “La lotta di classe dopo la lotta di classe” (intervista con Paola Borgna, Laterza), vi verrà più di un dubbio. Già, perché Gallino fornisce una serie impressionante di dati, citando ricerche di organizzazioni internazionali e osservando con onestà intellettuale e indipendenza di giudizio gli effetti della grande crisi internazionale del 2008 per scoprire che la realtà raccontata dai grandi media e le decisioni prese dai governi europei fanno parte della più grande mistificazione mai apparsa negli ultimi trent’anni nel mondo occidentale.

Questa mistificazione si è resa necessaria, secondo Gallino, per “riequilibrare” il sistema economico ereditato da quei “terribili” anni ’70 (così li definì incredibilmente l’allora ministro del lavoro Maurizio Sacconi, uno dei più convinti restauratori dell’ancien régime delle condizioni di lavoro in Italia), nei quali una lungimirante politica sociale aveva contribuito saggiamente a diffondere il benessere capitalistico anche fra i ceti subalterni, fra quelle classi di braccianti agricoli diventati, grazie all’industria, piccola borghesia e ceto medio, titolari di un discreto reddito con il quale tirare su famiglia e diventare così l’ossatura della società italiana moderna.

GLOBALIZZAZIONE, OCCASIONE UNICA. In altri termini, i ceti dirigenti italiani avrebbero sfruttato la portata della globalizzazione spacciando come “necessità” la progressiva erosione dei diritti dello Stato sociale, abbassando salari e pensioni, rendendo più costosa la sanità pubblica, asserendo che, altrimenti, saremmo tutti falliti e che l’imperativo categorico era quello di abbattere il deficit di bilancio nel più breve tempo possibile, costi quel che costi in termini sociali. In realtà, Gallino stila parole molto dure anche su come i Paesi occidentali (che una volta potevano chiamarsi “industrializzati”) hanno concepito la globalizzazione. Essi l’hanno sfruttata per trasferire in massa le loro produzioni là dove i salari sono bassi, incassando velocemente ingenti plusvalenze, poi impiegate nei mercati finanziari per generare altre plusvalenze improduttive. E così, «gli Stati Uniti sono stati in gran parte de-industrializzati», al pari della Gran Bretagna e di numerosi altri comparti industriali italiani.

LA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA. Poteva forse realizzarsi qualcosa di diverso? Certo, dice Gallino. Se potenze economiche come gli Usa fossero state più lungimiranti si sarebbero ben guardate dal desertificare il proprio tessuto produttivo, puntando esclusivamente alla finanziarizzazione del sistema economico, cioè a quella «ricerca ossessiva di sempre nuovi campi della vista sociale, dell’esistenza umana e della natura da trasformare il più rapidamente possibile in denaro».

LE MISTIFICAZIONI SULLA PRODUTTIVITÀ. Passando alla situazione italiana, Gallino discute alcune delle convinzioni più radicate nella cultura economica e diffuse con la grancassa dai giornali e dalle televisioni. Una di queste è quella secondo cui la produttività del lavoro, in Italia, è la più bassa in Europa. Il discorso della produttività è importante perché diffondendo tale convinzione si possiede un’arma utile per mantenere basse le retribuzioni di operai e impiegati. La mistificazione, in questo caso, sta proprio nel concetto di produttività, che in Italia corrisponde grossolanamente alla quantità «di pezzi sfornati all’ora da un operaio», più o meno come nel film «Tempi moderni» di Charlie Chaplin (e poi i vari Cacciari e Brunetta accusano i critici di utilizzare categorie concettuali del secolo scorso), mentre le principali organizzazioni internazionali, come l’Ocse, intendono per produttività il «valore aggiunto», un parametro strettamente legato agli investimenti in ricerca e sviluppo, che in Italia sono ridicoli rispetto a tutti gli altri Paesi sviluppati. È chiaro che se si intende per «produttività» il «valore aggiunto», allora cambia radicalmente il modo di concepire le cause della crisi, che non sarebbe da addebitare esclusivamente alla scarsa voglia di lavorare degli operai italiani ma alla poca lungimiranza degli imprenditori.

I MISFATTI DEL NEOLIBERISMO. Gallino poi passa ad esaminare i “capolavori” realizzati dal pensiero neo-liberista lungo l’arco di un trentennio, visto che tale pernicioso pensiero economico ha permeato di sé le politiche economiche di quasi tutti i Paesi industrializzati e continua ad imperversare attualmente fra le stesse istituzioni mondiali (Banca centrale europea, Commissione europea e Fondo monetario internazionale) e nota come, nonostante gli evidenti disastri prodotti da politiche economiche restrittive, tutte fondate sul rientro dal debito e senza alcuna sanzione che limiti l’operatività degli speculatori sui mercati finanziari, i fondamenti di queste politiche continuino ad essere contrabbandate come le uniche in grado di far uscire il mondo dalla crisi economica che lo attanaglia oramai da quattro anni. Il pensiero neo-liberista, lungi dall’essere accantonato come si farebbe con una teoria contraddetta da ottanta anni di esperienza economica, rimane protagonista nelle Università e nei centri di ricerca. È indubbiamente una questione di mezzi e potere, dice Gallino, essendo questo pensiero ben foraggiato dai grandi gruppi finanziari e industriali, mentre il pensiero critico «ha un potere e un peso modesto, a causa di un’enorme inferiorità economica».

L’ATTACCO ALLE PENSIONI. Le mistificazioni del pensiero neo-liberista comportano gravi distorsioni della realtà, come quella che mette in dubbio ciò che tutti i dati a nostra disposizione indicano: un’accresciuta concentrazione del reddito verso le classi già ricche e un impoverimento progressivo del ceto medio. In Italia, ad esempio, si è intervenuto ripetutamente sulle pensioni in modo rigido e senza alcuna considerazione verso coloro che cercano di sopravvivere con mille euro al mese quando, secondo i calcoli proposti da Gallino e ripresi da una ricerca del “Credit Suisse”, una patrimoniale consolidata che obbligasse i grandi proprietari di patrimoni (1,5 milioni di cittadini) a versare un’imposta di tremila euro all’anno avrebbe dato un gettito di 4,5 miliardi ed avrebbe evitato, ad esempio, l’abolizione dell’indicizzazione delle pensioni dal 2012 e quindi la loro progressiva diminuzione in termini reali. Ciò che si deve denunciare, scrive ancora il sociologo torinese, è che «il nostro Paese ha ignorato le politiche redistributive volte a ridurre le disuguaglianze almeno negli ultimi quindici o venti anni», anzi, «per certi aspetti, le ha combattute», basti pensare «all’attacco condotto dagli ultimi governi contro il contratto collettivo nazionale di lavoro, che è uno degli strumenti che dovrebbero concorrere a ridistribuire in qualche misura il reddito».

LEGITTIMAZIONE POLITICA. A questo punto della sua analisi Gallino trae le conclusioni politiche di quanto ha fino a questo momento esaminato. Si tratta di conclusioni molto gravi, perché pongono il problema della legittimazione democratica di Istituzioni, quali ad esempio la Commissione europea e la Banca centrale, le cui decisioni incidono così pesantemente sulla vita materiale dei cittadini del Vecchio Continente. In realtà, le Istituzioni citate sembrano essere influenzate pesantemente non dalle esigenze collettive ma dagli interessi dei potentati finanziari ed economici, primi fra tutti le banche. Ad esse si adeguano i governi nazionali; nel caso italiano in modo perfino inconcepibile, se solo si pensa alla celebre “lettera” dell’agosto 2011 inviata da Mario Draghi e da Jean-Claude Trichet al governo italiano, con la descrizione delle misure economiche da adottare. In realtà, come ha affermato lo stesso Tremonti a “Servizio pubbico”, la lettera fu scritta addirittura a Roma e fu un tentativo di salvare il governo di Silvio Berlusconi. Si tratta, quindi, di una vera e propria caduta della legittimità democratica dei governi europei, che delegano ad istituzioni che non hanno alcun mandato popolare, decisioni che invece dovrebbero essere prese da loro stessi. Se questa è la condizione attuale del sistema europeo, c’è da chiedersi, con preoccupazione, quale sarà il futuro politico dei cittadini del Vecchio Continente. Gallino fa intravedere un pericolo destabilizzante per lo Stato democratico. Ma bisogna avere gli occhi e la volontà di vederlo.

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