Piero Ostellino e i “liberali alle vongole”. Come e perché in Italia si combatte la guerra alla razionalità politica (II parte)

I “liberali alle vongole” hanno un’idea esclusivista della giustizia e, in particolar modo, della procedura penale. Quest’ultima, come noto, consiste in corpi di norme finalizzate a regolare il processo penale e le indagini con la formazione delle prove. Ora, caratteristica costante delle leggi in materia, a partire dalla pubblicazione dell’opera più famosa di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene” (1763) e prima ancora dal cosiddetto “Habeas Corpus Act” (1679) in Inghilterra, almeno nei Paesi europei, è stata la tutela dei diritti della difesa e dell’individuo al cospetto di un giudice inquirente. In Italia, il nuovo codice di procedura penale del 1989 ha introdotto il sistema “accusatorio”, in luogo di quello “inquisitorio”, mutuando l’esperienza delle Corti anglosassoni in materia di formazione della prova durante il dibattimento e parificando, in modo tutto sommato efficiente, i diritti della difesa con quelli dell’accusa. Grazie anche alla poderosa spinta di giuristi quali Luigi Ferrajoli e all’introduzione del principio del “giusto processo” in Costituzione (art. 111), la procedura penale ha assunto una funzione fortemente garantista, per taluni perfino squilibrata rispetto alle esigenze dell’individuazione e punizione del “reo”.

Eppure, per i “liberali alle vongole” tutto ciò è come se non fosse mai avvenuto e in Italia persisterebbero sacche di “giustizialismo”, soprattutto nei giudici politicizzati, che, in combutta con i media, fanno della “privacy” e delle garanzie dell’individuo carne da macello. Le critiche si appuntano soprattutto sulle intercettazioni. I rappresentanti di questa corrente di pensiero ne criticano non soltanto l’uso ma anche l’utilizzazione come fonte di prova. Ma nel farlo si mostrano oltremodo squilibrati perché non si preoccupano affatto quando le “cimici” danneggiano la privatezza di spacciatori, magari extracomunitari, rapinatori e compagnia ma soltanto quando ne sono colpiti membri dei “colletti bianchi”, soprattutto se uomini politici. In altri termini, per queste persone la “privacy” sarebbe un dovere sacro dell’ordinamento.

Si tratta, con evidenza, di un sentire la giustizia esattamente come ai tempi del liberalismo post-unitario, cioè un fenomeno di classe, che deve tendere a preservare innanzitutto il potere dei ricchi, quindi un ritorno al passato, quando i sistemi politici ancora non avevano introdotto nelle Costituzioni quel corpo di principi che conformano il modello “democratico” in luogo di quello “liberale”.

Perché poi, alla fine, il grande equivoco che il berlusconismo di maniera dei “liberali alle vongole” ha creato – per verità con molte insolute ambiguità – consiste nel presentare alla pubblica opinione la dottrina liberale non come un reperto del recente passato, quale essa in effetti è, ma come una grande speranza per il futuro. Fra lo Statuto Albertino del 1848, di ispirazione strettamente liberale e la Costituzione Repubblicana (1948) vi è l’abisso originato dall’irruzione nei modelli politici statuali, appunto, del concetto di “democrazia”, cioè di una concezione della sovranità che non appartiene più ad una classe sociale ma a tutto il popolo. Parlare oggi, dunque, di “liberalismo” come se ne parla, fra gli altri, sul “Corriere della sera” è un non senso, è come se si concepisse il ritorno alla teoria tolemaica in luogo di quella copernicana e si ritenesse che la Terra è al centro dell’Universo.

Quest’ultima considerazione si riflette anche sui sistemi penali nel momento in cui, ad esempio, si introducono norme “parificatrici” quale l’articolo 3 della Costituzione, vera e propria negazione di quella “giustizia di classe” che per i “liberali alle vongole” rappresenta un valore ancorché non confessato. E così in materia di intercettazioni, il modello democratico – che fra le altre cose rintraccia nella sicurezza sociale uno dei valori fondanti dell’ordinamento – non può che prevedere la subordinazione della diritto alla “privacy” (cioè alla tutela della vita privata dei cittadini, valore comunque qualificante e persistente) alla necessità di individuare e isolare dal corpo sociale coloro che ne mettono a rischio la tenuta con i loro comportamenti criminali. Ma ciò deve poter valere anche per gli stessi rappresentanti della sovranità popolare, qualora pongano in essere comportamenti antigiuridici.

È significativo delle ambiguità di fondo delle analisi dei “liberali alle vongole” il fatto che mai essi citino esperienze condotte proprio in quei Paesi dove la dottrina liberale è nata ed ha ricevuto continui affinamenti, perfino di rango costituzionale (si pensi agli emendamenti alla Costituzione americana). Nel 1974 furono proprio delle intercettazioni condotte contro il Presidente Nixon a scoprire un sistema di “intercettazioni illecite” da lui intraprese ai danni dell’antagonista Partito Democratico. In Gran Bretagna ancora nessuno ha dimenticato la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche nelle quali il principe ereditario Carlo, con voce pigolante, sospirava a Camilla di voler essere il “suo tampax”. Negli Usa, la legge federale consente le intercettazioni a tutto campo, non distinguendo nell’appartenenza ad un corpo politico dell’intercettato, a condizione che sia un giudice federale, su richiesta dell’Attorney General (cioè l’accusa che conduce le indagini), ad autorizzarne l’esecuzione. Il limite al loro uso, dunque, risiede soltanto nel concetto di “abusività” delle stesse (cioè intercettazioni senza autorizzazione).

Proprio i sistemi liberali che dovrebbero tanto piacere agli editorialisti del “Corriere della sera” smentiscono clamorosamente la loro visione unidirezionale di uno strumento universalmente conosciuto per la sua efficacia, dato che registra dichiarazioni e intenti “puri”, non viziati dall’intervento di legali o da altre contingenze (II-fine).

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