A difesa di Giovanni Palatucci. Giusto fra le Nazioni

ROMA – Mi occupo di ricerche sulla Shoah da tanti anni. Conobbi la vicenda di Giovanni Palatucci in giovane età e approfondii le mie conoscenze riguardo al poliziotto di Fiume nel 1990, quando il museo Yad Vashem di Gerusalemme lo riconobbe Giusto tra le Nazioni.

Mi hanno sorpreso profondamente le dichiarazioni espresse dal Centro Primo Levi di New York e pubblicate recentemente dal New York Times. Natalia Indrimi, direttrice del Centro, ha infatti annunciato gli esiti di uno studio su circa 700 documenti italiani e tedeschi, da cui emergerebbe il ruolo di collaboratore nazista di Palatucci. Secondo il Centro Primo Levi, gli atti coraggiosi compiuti dal funzionario di polizia di Fiume negli anni delle leggi razziali sarebbero l’invenzione delle zio, vescovo di Campagna. Le affermazioni del Centro hanno indotto il Museo dell’Olocausto di Washington a rimuovere alcuni suoi documenti e foto da una mostra.

Il tono della lettera inviata da Natalia Indrimi al Museo dell’Olocausto di Washington e ripresa New York Times non mi è piaciuto, perché manca completamente di rispetto non solo verso Giovanni Palatucci, ma anche nei confronti dei testimoni che negli anni hanno deposto a suo favore. La ricercatrice usa – probabilmente senza rendersene conto, in ossequio al “diritto di espressione” – parole mirate a scardinare l’intero caso Giovanni Palatucci e a gettare discredito su tutti coloro che hanno resa pubblica la memoria delle opere del funzionario di polizia. La Indrimi colpisce in primis lo zio vescovo Giuseppe Maria Palatucci, affermando che la testimonianza del religioso fosse mirata ad ottenere – truffaldinamente – una pensione a beneficio del padre di Giovanni, il possidente Felice Palatucci, a propria volta, quindi, accusato di essere un frodatore. Nel prosieguo della lettera, le parole della presidente del Centro Primo Levi cercano di screditare l’attendibilità di tutti gli altri testi, con sofismi e affermazioni perentorie da avvocato del diavolo, più che da ricercatore. La Indrimi liquida così la figura di Palatucci: “La persecuzione non è soltanto resa possibile dagli aguzzini ma anche dal silenzio, dall’obbedienza e dalla convinzione di essere nel giusto. Ed è questo che Palatucci rappresenta”. Nonostante non condividessi la forma della missiva, un vero e proprio attacco alla memoria, all’inizio ho pensato che l’iniziativa del Centro Primo Levi, che annunciava la pubblicazione di uno studio sugli ebrei di Fiume durante la Shoah, fosse comunque un contributo alla ricerca della verità. Sono convinto che si debba perseguire in ogni caso la verità, anche quando essa presenti un volto doloroso, perché sarà solo la verità a garantire la preservazione della memoria dell’Olocausto, affinché le generazioni future non dimentichino. Quindi ho scritto un breve intervento, sottolineando come la paura – nessuna forma di paura – non debba mai prevalere sull’oggettività della ricerca storica.

Se vogliamo seguire senza pregiudizi le anticipazioni rilasciate dal Centro Primo Levi, dobbiamo ammettere che è difficile identificare le tracce dei cinquemila ebrei salvati da Palatucci. Cinquemila, però, è proprio il numero che riferì Rafael Cantoni, delegato italiano alla prima Conferenza Ebraica Mondiale, tenutasi a Londra nel 1945. Sulla base di un numero così consistente, sorgeva naturale in me – dopo aver letto le affermazioni di Natalia Indrimi –  un’altra domanda: come mai solo poche voci avevano testimoniato a suo favore? Perché la documentazione è scarsa e la si si ritrova principalmente fra le carte dello zio vescovo? E come poté Giuseppe Maria salvare tanti ebrei inviati presso il campo di concentramento di Campagna (Salerno)? Le due caserme di Campagna accolsero trecentoquaranta internati all’inizio, che si ridussero a circa 200 – addirittura centotrenta, secondo il testimone Wilhelm Baehr – all’arrivo degli alleati. Secondo il Centro Primo Levi, gli ebrei di Campagna furono salvati dalla fine della guerra e non dal vescovo, con la sua rete umanitaria. In ragione di tali dubbi, quando corrispondevo con gli studiosi del museo Yad Vashem – con cui ho più volte collaborato – o con i testimoni della Shoah che mi onorano della loro amicizia, specificavo, a proposito del caso Palatucci, che è importante preservare il ricordo dei Giusti tra le Nazioni, perché rappresentano il lato migliore dell’umanità, ma contemporaneamente dobbiamo credere nel valore della ricerca storica, perché il nostro obiettivo di studiosi ed educatori non può essere che la verità. Seguendo queste linee guida, ho cercato di rispondere con obiettività, in base ai documenti disponibili, a ciascuno dei miei dubbi. Innanzitutto, le testimonianze. Sono numerosissime, le deposizioni e le voci a favore di Palatucci e alcune di esse – come quella del testimone Rodolfo Grani, ebreo fiumano –  risalgono al 1952 e furono pubblicate dai quotidiani di Tel Aviv HaBoker e Uj’Kelet. Il Centro Primo Levi mette in discussione l’esistenza di tali pubblicazioni, che invece sono conservate presso il museo Yad Vashem. Anche il testimone principale dell’attività umanitaria di Giovanni Palatucci, lo zio vescovo, è degno di fede al di là di ogni dubbio. Sono la sua vita, il suo impegno apostolico, le sue azioni e le migliaia di lettere e documenti che ci ha lasciato a confermarci la sua grandezza morale, la sua integrità, il suo coraggio. Nelle carte che gli appartennero e che si riferiscono agli anni delle leggi razziali (1) traspaiono chiaramente l’attività sua e del nipote Giovanni finalizzate a salvare gli ebrei. Se i Palatucci avessero eredi, di certo oggi essi si impegnerebbero per difendere il buon nome del poliziotto e del vescovo, quest’ultimo trasformato dalle conclusioni del Centro Primo Levi in un uomo meschino, bugiardo, avido e dedito alla mistificazione e all’imbroglio. Il pensiero del Centro sul poliziotto di Fiume risulta altrettanto riduttivo dalla lettera al museo di Washington, ripresa dai quotidiani di tutto il mondo. Riguardo all’obiettivo di quella che il Centro dipinge come una gigantesca montatura, è il testimone della Shoah Wolf Murmelstein, in un recente intervento, a riportare un po’ di verità: “Le norme sulle pensioni di guerra erano restrittive, specialmente per i superstiti. L’Avv. Felice Palatucci, pertanto, non avrebbe avuto diritto ad una pensione di guerra. E’ vero invece che nel 1948 gli venne corrisposta una somma esigua quale ratei di stipendio del figlio morto”. Anche gli altri testimoni-chiave, Remolino, Veneroso, Maione e Cuccinello sono figure di notevole spessore morale, al di sopra di ogni sospetto.

 

Una delle accuse più gravi che il Centro rivolge a Palatucci è quella di aver denunciato una famiglia ebrea di Fiume. Il Centro sostiene infatti che Giovanni Palatucci avesse denunciato quel nucleo familiare nascosto sotto falso nome, in risposta a un telegramma datato 23 maggio 1944, pervenuto alla questura di Fiume da parte di quella di Ravenna. Secondo i ricercatori del Centro Primo Levi, se Palatucci fosse stato davvero un Giusto tra le Nazioni, avrebbe dovuto rispondere che i membri della famiglia non erano residenti a Fiume e che né il suo ufficio né l’anagrafe locale ne avevano conoscenza. Invece la questura ravennate ricevé in risposta al telegramma un biglietto: “Trattasi di ebrei apolidi fiumani qui irreperibili che identificansi per…” (a seguire, i dati anagrafici dei componenti della famiglia). Il biglietto era firmato “Pel reggente Palatucci”. Ammesso che il biglietto manoscritto (non un telegramma ufficiale, ma un comune pezzo di carta) sia autentico, va rilevato che coloro che operavano per salvare gli ebrei dall’interno delle istituzioni nazifasciste, potevano agire solo in determinate condizioni, senza destare sospetti nei superiori. Di fronte a una richiesta ufficiale di informazioni, negare la presenza di ebrei registrati all’anagrafe e negli schedari della forza pubblica sarebbe equivalso a fornire al regime una prova certa della propria attività clandestina. Oskar Schindler riuscì a salvare tanti ebrei solo perché era riuscito a conquistare la piena fiducia dei nazisti, giungendo a partecipare ai loro festini e alle loro bevute.

 Palatucci operò per salvare gli ebrei dalla persecuzione solo quando le circostanze glielo permisero, mentre non poté evitare la deportazione di oltre 700 ebrei fiumani. Se consultiamo gli archivi relativi ai martiri della Shoah presso il museo Yad Vashem, troviamo più di 500 nomi di ebrei che risiedevano a Fiume o Abbazia. Il Centro Primo Levi sottolinea come i sostenitori di Palatucci abbiano prodotto pochissimi documenti atti a dimostrare le sue azioni a tutela della vita degli ebrei. I miei amici Thomas Gazit e Wolf Murmelstein, testimoni della Shoah, hanno risposto in modo convincente a questo appunto. Thomas è sempre preoccupato quando si afferma una teoria revisionista legata alla Shoah in base alla “mancanza di documenti”. E’ quello che sta facendo il Centro, che sottolinea come non vi siano evidenze a favore di Palatucci e contemporaneamente decostruisce le deposizioni dei testimoni. Punta il dito contro la “fragilità” delle informazioni contenute nelle carte di monsignor Palatucci e dà grande rilievo a un foglietto manoscritto che la questura di Fiume avrebbe inviato a quella di Ravenna. “In quell’epoca solo persone ritenute affidabili dal regime nazi-fascista potevano aiutare,” mi ha scritto Wolf, “evitando qualsiasi pubblicità e senza lasciare lasciare documentazione. Schindler ha potuto aiutare gli ebrei perché iscritto al partito nazista. Nel 1940 era grande l’impegno dei dirigenti ebrei italiani per ottenere che i profughi non venissero espulsi, consegnati alla Gestapo, ma mandati in internamento da qualche parte in Italia. I funzionari di polizia che hanno disobbedito all’ordine di espellere i profughi erranti, mandandoli invece in qualche comune dell’Italia del Sud hanno meriti che certamente non potevano documentare con cura notarile”. L’atmosfera che si è creata intorno al caso Palatucci è ben definita dalla battuta di un cabaretista israeliano di tanti anni fa, che Thomas mi ha raccontato:  “Lo sai che durante l’assedio dei romani usavano mezzi di comunicazione senza fili? Incredibile! E come sono arrivati a questa affermazione? Gli archeologi, scavando sotto il tempio di  Gerusalemme non hanno trovato fili!”.

Il lavoro dello storico considera il valore delle prove testimoniali alla stregua di quello delle prove documentali. Secondo il Centro Primo Levi, Giovanni Palatucci non avrebbe salvato alcun ebreo, mentre lo zio vescovo avrebbe costruito una messinscena per ottenere una pensione a vantaggio del padre del poliziotto, il possidente Felice Palatucci. Tuttavia, i suoi ricercatori non forniscono alcuna prova né documentale né testimoniale riguardo a tale frode né a un’indole fraudolenta propria del vescovo il quale, al contrario, ha sempre goduto fama di persona integerrima, animata dai più alti ideali cristiani e civili. Il Centro nega nello stesso modo l’attendibilità di tutti gli altri testimoni, sempre senza fornire alcuna evidenza a riguardo. Non è questo il modo di fare ricerca. In merito all’affermazione secondo cui Palatucci non avrebbe evitato la deportazione ad alcun ebreo, smentiscono i ricercatori del Centro numerose testimonianze di ebrei salvati, fra cui Elena Aschkenasy e i suoi parenti, Salvator Konforti e Olga Hamburger, Rozsi Neumann, la famiglia Berger, le sorelle Ferber, per non parlare dell’amica ebrea Mika Eisler e della madre di lei. Nella lista dei salvati da Palatucci vanno inoltre inclusi l’ingegner Carlo Selan e la moglie. In una lettera del 21 dicembre 1940 Giovanni Palatucci raccomanda allo zio vescovo di interessarsi e intervenire riguardo ad alcuni ebrei che il poliziotto definisce “miei protetti”.  Fra di loro vi è il nome di Carlo Celan, che nel 1991 scriverà da New York in un articolo: “Tutta la mia famiglia e ognuno che è sfuggito a Hitler e agli Ustascia, ha trovato un porto di serenità in Fiume solamente per la gentilezza e l’ammirabile personalità di Giovanni. Se non fosse stato per lui, ben pochi avrebbero potuto rimanere vivi oggi” (2).

Ricordiamo inoltre una testimonianza molto importante, quella dell’ebreo antifascista Settimio Sorani, responsabile a Roma della Delasem, Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei nel periodo delle leggi razziali. La Delasem svolse attività autorizzate dal regime fascista a partire dal 1° dicembre 1939 e passò in clandestinità dal 3 settembre 1943, inizio dell’occupazione tedesca. “Quando ebbe coscienza che nelle sue mani di funzionario addetto al controllo degli stranieri, stavano, in gran parte le sorti degli ebrei di Fiume,” scrisse Settimio Sorani, “Palatucci non esitò a prendere posizione conforme alla sua posizione di cristiano e di italiano. (…) A Fiume continuò l’afflusso segreto degli ebrei profughi dall’Europa invasa, che prese proporzioni ampie dopo l’invasione nazifascista della Jugoslavia. Secondo le disposizioni del prefetto Testa, che fungeva pure da commissario di Stato per i territori jugoslavi aggregati alla Provincia di Fiume, gli ebrei fuggenti dovevano essere colti come in trappola. Grazie invece alla collaborazione di soldati e ufficiali della Seconda Armata la trappola non funzionò. (…) Ufficialmente egli  li faceva apparire irreperibili, mentre poi li muniva di documenti alterati. (…) E provvide ad allontanarli da Fiume alla chetichella”. 

Il metodo di Palatucci, spiegato dalle parole di Sorani, è lo stesso che mostrano i documenti falsificati degli ebrei di Lenti, conservati presso il museo Yad Vashem: una vicenda di cui si è scritto e parlato poco, in questo periodo, ma che è significativa dell’opera umanitaria dei Palatucci. Le testimonianze di coloro che aiutarono Giovanni e Giuseppe Maria nelle loro azioni a difesa degli ebrei concordano sulle intenzioni e sulle metodologie seguite dai Palatucci. Per esempio, Albertino Remolino, il “postino degli ebrei”, con la sua funzione di intermediario fra Giuseppe Maria e Giovanni fu protagonista di azioni molto delicate, che non sempre, purtroppo, si conclusero felicemente.

Digitando “Salerno” (o “Altavilla”) nel database del museo Yad Vashem che raccoglie i martiri della Shoah, appaiono 32 nomi di ebrei. Altri nomi sono presenti in una serie di documenti conservati presso gli archivi dello stesso museo. La località di residenza abituale riportata da schede e documenti è Altavilla Silentina. Il giornalista e storico della Shoah Nico Pirozzi  ha dimostrato in “Fantasmi del Cilento – Da Altavilla Silentina a Lenti un’inedita storia della Shoah ungherese” (Editrice Cento Autori 2007) che quegli ebrei erano parte della comunità ebraica di Lenti, in Ungheria. La comunità contava 52 individui in tutto e i restanti figurano anch’essi, purtroppo, fra le vittime della Shoah. Per trovare i loro nomi basta digitare “Lenti” nel database. Pirozzi documenta nel suo libro come fossero stati proprio Giovanni Palatucci e lo zio a organizzare il piano di salvataggio degli ebrei di Lenti. Attraverso Albertino Remolino, un soldato di leva di Campagna, Giuseppe Maria fece pervenire al nipote molti certificati di nascita e di residenza trafugati dal municipio di Altavilla Silentina (Salerno).  I documenti, attraverso un altro corriere, furono consegnati alla comunità ebraica di Lenti, che nella primavera del 1944 tentò di utilizzarli per raggiungere Fiume. Il progetto fallì e i nazisti arrestarono gli ebrei della cittadina ungherese, che per la maggior parte furono assassinati nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau. E’ probabile che il nome del questore reggente di Fiume sia emerso in seguito agli arresti di Lenti – considerati i metodi brutali di interrogatorio attuati dai nazisti – e che tale azione gli sia costata un’accusa di tradimento e di conseguenza l’arresto, avvenuto il 13 settembre 1944, la deportazione a Dachau e la morte, sopraggiunta il 10 febbraio 1945. L’operazione per tentare di salvare gli ebrei di Lenti è la prova tangibile di come operasse Giovanni Palatucci per evitare la deportazione degli ebrei verso i campi di morte, non solo trasferendoli nei campi del sud Italia, dove la speranza di sopravvivere era più alta e migliori le condizioni di vita, ma anche producendo documenti falsi, correndo grandi rischi, per ingannare il regime. L’archivio di Yad Vashem conserva le schede di ebrei ungheresi che risiedevano in città diverse da Lenti, muniti dei certificati contraffatti dai Palatucci. Non si può escludere che in alcuni casi i documenti contraffatti abbiano salvato ebrei. Va rilevato inoltre – come ha scritto il giornalista di Altavilla Silentina Oreste Mottola nell’articolo “Gii ebrei al confino di Altavilla Silentina”, in base  a documenti conservati nell’Archivio Storico della Biblioteca Civica di Altavilla Silentina – che alcuni ebrei ungheresi raggiunsero realmente la località di Altavilla Silentina, passando per il campo di internamento di Campagna, dove operava monsignor Palatucci.

 

Se è vero che numerose richieste di espatrio in Sud America e verso altre destinazioni non andarono a buon fine, molte altre, invece, consentirono agli ebrei di Campagna e Altavilla di sottrarsi per sempre alle persecuzioni razziali. Lo stesso Centro Primo Levi riconosce che le vicende di Altavilla Silentina sono particolarmente complesse e richiedono ulteriori analisi documentali. 

Dopo aver letto uno dei miei interventi (3), Natalia Indrimi mi ha scritto, spiegandomi le posizioni del Centro Primo Levi di New York e cercando di rispondere ai miei dubbi sulla congruità di alcune conclusioni che sembrano emergere dallo studio. Il Centro sta valutando attentamente le mie considerazioni – espresse in forma più particolareggiata in un secondo articolo (4) – e quelle degli altri studiosi che rimarcano la consistenza delle prove a sostegno delle azioni umanitarie dei Palatucci. Siamo in disaccordo sull’attendibilità dei testimoni. Il Centro mette in discussione tanto il vescovo Giuseppe Maria, quanto Remolino, Veneroso, Maione e Cuccinello. Riguardo al caso di Lenti/Altavilla Silentina, Natalia Indrimi mi ha scritto: “Bisogna anche chiedersi perché i Palatucci si sarebbero prodigati per salvare 50 ebrei in Ungheria quando non fecero nulla per quelli in loco”. Le ho ricordato che Giovanni Palatucci, con il suo lungo incarico presso l’ufficio stranieri della Questura fiumana, si era specializzato nel salvare gli ebrei non residenti, mentre il suo campo di azione era assai ristretto per i residenti, considerato il lavoro spietato degli “spulciatori del registro dello Stato Civile” (5) nonché l’efficienza delle autorità fasciste e la rete di complicità e timori, che rendeva praticamente impossibile aiutare gli ebrei residenti, i quali erano schedati e controllati. I Palatucci cercarono di aiutare persone di fede ebraica in situazioni assolutamente tragiche, non solo sul suolo italiano. Oltre agli ebrei di Lenti, le carte di monsignor Palatucci riferiscono di casi riguardanti ebrei fuori dall’Italia, in cui Giuseppe Maria tentò di rendersi utile. Ne è un esempio quello di Hilde Levi e Lotte Frank, deportate a Lodz dalla Germania. Il Centro Primo Levi ritiene che Giovanni Palatucci non sia stato arrestato e deportato a Dachau, dove morì, per la sua attività a difesa degli ebrei. Natalia Indrimi mi ha ricordato il contenuto di un telegramma di Herbert Kappler, il comandante della Gestapo che arrestò Giovanni Palatucci, dove è specificato che Palatucci fu perseguito per avere mantenuto contatti col servizio informativo nemico. I ricercatori tuttavia non hanno tenuto conto del fatto che, in seguito al 3 settembre 1943, data dell’armistizio di Cassibile e inizio dell’occupazione tedesca, gli ebrei furono definiti nel Manifesto di Verona quali “stranieri e nemici”. Anche sotto la Repubblica Sociale, il funzionario operava a contatto con la Delasem e si impegnava in azioni pericolose, come quella per salvare gli ebrei di Lenti, azioni che verosimilmente furono all’origine del suo martirio.

Dopo aver presa visione del contraddittorio, Natalia Indrimi mi ha scritto: “Credo che a questo punto la ricerca sia solo incominciata e che ci sia molto da studiare sulle tante questioni che riguardano le persecuzioni nel Carnaro e – indirettamente o direttamente – l’attività di Giovanni Palatucci”. Si può dunque affermare che lo studio effettuato dal Centro non abbia ancora raggiunto la sua fase conclusiva e dunque si debba considerare come avventata e  inopportuna la diffusione a macchia d’olio, da parte dei media internazionali, delle prime dichiarazioni a caldo rilasciate da Natalia Indrimi. 

 

E’ invece abbastanza netta la sensazione  che i ricercatori del Centro Primo Levi di New York nutrano una forma particolare di sfiducia verso i “Giusti fra le Nazioni”, forse perché considerano che essi non fecero quasi mai abbastanza per salvare gli ebrei. Da uno scambio di corrispondenza intercorso con il Centro, mi è risultato evidente come l’opinione dei suoi ricercatori riguardo a Oskar Schindler non sia migliore di quella che hanno verso Palatuccci. Di certo preferiscono l’eroe che si sacrifica per dire “no” all’abuso, di fronte all’autorità, sacrificando magari la propria vita. Non accettano il lavoro di chi, dall’interno delle istituzioni, operò con prudenza, sempre per evitare il numero maggiore possibile di deportazioni, ma non agendo quando un’azione avrebbe messo in pericolo il progetto a più lungo termine. Come studiosi, non si accorgono – a mio avviso – di procedere a senso unico; come esseri umani soffrono indicibilmente gli effetti della Shoah e probabilmente hanno sviluppato l’equazione ebrei= agnelli; gentili=lupi. Non credono che alcun essere umano abbia aiutato il popolo ebraico perseguitato. Non credono in Palatucci né in Schindler né in Perlasca. Forse neanche in Bartali, recentemente accolto nel Giardino dei Giusti da Yad Vashem. Sarà difficile che tornino sui propri passi, assumendo un atteggiamento equilibrato e non integralista.

 

  • (5) Si veda sull’argomento Paolo Santarcangeli,  “Il porto dell’Aquila decapitata”, Udine 1987.

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