Venezia 1791. Uno strano caso di annegamento

VENEZIA – 4 dicembre 1791. Sono le nove di sera di Mercoledi. Una signora  è affacciata sul balcone di una camera sopra il rio di Ca’ Vidman, nel sestiere di Cannaregio, nei pressi del Ponte della Panada della parrocchia di Santa Maria Nova.

E’ una tranquilla serata invernale, fa freddo e le calli sono deserte. Mentre osserva qualche gondola che passa per quel canale, sente un gran tonfo in acqua.  Non riesce a capire cosa sia stato, poi, chiude le finestre e torna in cucina.

Giovedi verso le ore tre del pomeriggio. Nane Culotta, che lavora da botter in una bottega di un tal Sor in Paludo a Santa Marina, sta correndo verso il Ponte della Panada urlando alla gente che venisse a dargli una mano. In quel mentre stava giungendo Francesco Basatto,  barcaiolo al servizio del nobile Benedetto Capello presso lo stesso ponte. Attirato dalle urla del Culotta andò a vedere cosa succedeva. Nel canale, vicino ad un palazzo disabitato di proprietà di una certa Contarini, c’era un corpo che galleggiava. Parte era sommerso e la corrente spingeva quell’uomo lentamente contro la riva. Il Basatto ferma tre persone: un tale che normalmente faceva polenta in campo a San Giovanni e Paolo, un facchino e un certo Balo soprannominato Brugno che lavora nelle peote, speciali barche per il trasporto. Tutti assieme, con un po di fatica, riescono a tirare a riva il cadavere. Dopo averlo disteso sul selciato della riva, lo girano con la faccia rivolta verso l’alto. Sotto i loro sguardi giace un uomo che ha all’incirca quarant’anni, è vestito con velluto color oliva con bottoni bianchi ed un elegante gilè. Al collo ha un fazzoletto di seta di color giallo, con calze color persico e scarpe nere con una ricca fibbia di argento. Quegli abiti lo identificano come una persona benestante, inoltre, nelle tasche ha ancora del denaro ed un fazzoletto di raso di color rosso. Mentre la gente si sta accalcando per cercare di riconoscere in quelle sembianza il viso di un amico o parente, il Basatto nota che al dito della mano ci sono due vere d’oro. Sono ancora tutti concentrati  e nessuno si accorge che un ombra emerge dal fondo del canale. Viene a galla una parrucca di color scuro con coda. Balo detto Brugno è il primo a vederla e decide di prendere un ferro per cercare di smuovere le acque alla ricerca di altro che potesse appartenere all’annegato, ma nulla si muove più sotto il pelo dell’acqua. La parrucca viene messa assieme al cadavere. Venezia è una città costruita sull’acqua, non accade spesso ma succede che qualcuno ubriaco scivoli in un canale. Siamo in inverno e con tutte le taverne che ci sono non ci vuole molto per bere un po troppo e morire annegato. Mentre tutti si domandano chi fosse quell’uomo, si manda un ragazzo ad avvisare il capo sestiere. E’ passata l’ora del pranzo e il capo sestiere, assieme ad un fante, portano il cadavere ripescato in un magazzino della chiesa di San Marco. Quando c’era da effettuare un riconoscimento la procedura prevedeva di portare il cadavere li, dove sarebbe stato esposto sul ponte della paglia o su una saletta apposita.

5 dicembre. Attorno al tavolo dove è stato riposto l’uomo ritrovato nel canale il chirurgo Domenico Novello lo osserva. Sono le dieci di sera. Il chirurgo è stanco della giornata lavorativa ed e seccato di dover ispezionare un altro cadavere di un annegato. Quanti ne ha già visti nella sua vita di questi tizi che non si reggono in piedi per il vino e finiscono sul suo tavolo? Troppi e troppi per essere chiamato alle dieci di sera. Stila il rapporto specificando soltanto che l’uomo ha i capelli lunghi due dita e di color di castagna, nella fronte è calvo. Causa del decesso annegamento. Un rapporto veloce e non troppo dettagliato. Fu il primo errore.
Dopo la perizia del chirurgo le autorità decisero di esporre il cadavere in una scoletta corrispondente al Portico della Carta, per il riconoscimento. Nessuno aveva denunciato la scomparsa e nessuno venne a riconoscerlo.
Nello spogliare il cadavere il nonzolo della Ducal Basilica di San Marco, nota uno strano rigonfiamento nella tasca posteriore della fanella. Prende un paio di forbici e taglia alcuni fili. In quella finta tasca ci sono alcune carte zuppe di acqua. Il nonzolo è emozionato e vuole riferire subito la scoperta al magistrato. Prende le carte e corre fuori della Basilica, per strada incontra un tedesco che conosce di vista e gli mostra quanto appena scoperto.

Il tedesco gli spiega che sono dei pagherò di Banco, ovvero carte monetate, una specie di assegno di oggi. Il magistrato Gradenigo, incaricato di seguire questo caso, per ora registrato come annegamento, fece separare ed asciugare quanto ritrovato. Fece poi chiamare un certo Giuseppe Bancher che possedeva la bottega da Ferraglie in calle Larga dirimpetto all’Osteria del Pellegrino a San Marco. Bancher perizia le carte e riferisce che erano trenta tre carte di pagherò in lingua tedesca. Questo particolare risulta importante. Di fatto il corpo era stato ritrovato nei pressi del Ponte della Panada dove c’era una osteria per tedeschi. Le indagini sono rivolte solo a scoprire l’identità dell’annegato e per il momento si possiede questa pista e la parrucca ritrovata. Come spesso accade sono le casualità che danno il via ad una serie di eventi concatenati tra di loro. La parrucca fu quella casualità.

Il giorno sei viene interrogato Giuseppe Briussi di Francesco, nativo di Venezia residente a San Luca, di professione parrucchiere al servizio di Antonio Ceschi con bottega al Ponte del Bagattin a San Canciano. Perchè lui? Perchè aveva visto il cadavere esposto nella scoletta sotto il portico della Carta del Palazzo Ducale e lo aveva riconosciuto. Un caso fortuito. Quell’uomo era stato suo cliente la settimana prima, si ricordava di avergli fatto la barba. Il magistrato gli diede la parrucca da esaminare e il Briussi la riconosce come una di quelle che lui stesso pettinò quel giorno. Raccontò che Venerdi della settimana passata verso le ventidue venne un garzone della locanda detta dei Tedeschi per chiedergli se poteva seguirlo per un lavoro. Erano giunti alcuni forestieri e volevano farsi la barba e farsi pettinare le parrucche. Quando arrivò alla locanda vide tre uomini dai modi gentili e garbati. Gli furono consegnate due parrucche una con coda ed una all’uso degli abati Romani. Ritirò le parrucche e le riportò il giorno successivo. Questo avvenne di domenica mattina. Mercoledi verso le ventidue tornò alla locanda per vedere se avevano bisogno di altro. Il giorno di giovedì i tre forestieri chiesero alcune gondole che arrivarono da Canareggio e partirono. Questo era tutto quello che sapeva. Non era poco, anzi. Il magistrato ora conosceva la provenienza.  

Manda alcuni fanti a prelevare Giovan Battista Sneider, figlio di tale Giuseppe, nativo di Pergan, di 16 anni locandiere da due anni alla locanda sul Ponte della Panada. La locanda dei Tedeschi. Sneider racconta al magistrato che venerdi passato erano giunti da Mestre con barca a quattro remi tre forestieri tedeschi. Erano le 22 circa. Erano impellicciati e due parlavano anche italiano. Furono collocati nella stanza numero 4. Come da prassi chiese i nomi per trascriverli nei registri degli ospiti della locanda. Furono registrati con i nomi di Giovanni Cheffler, Francesco Lodar e Giuseppe Eppar. Scrisse che erano tutti provenienti da Rab anche se confidò al magistrato che non sapeva dire esattamente dove fosse questa città. Giovedi chiesero una barca per partire e lo saldarono in ungheri imperiali. Un ora e mezza più tardi ritornarono da terra in due, ovvero quelli che parlavano in italiano e chiesero ad alcuni gondolieri di attenderli mentre caricavano il baule. Erano diretti a Padova e lui si senti di consigliargli di pernottare alla locanda la Stella D’Oro. Il magistrato gli chiese se secondo lui l’annegato poteva essere uno di quei tedeschi. Sneider disse che aveva visto il cadavere appena ripescato ed era anche andato a vederlo a San Marco, ma non poteva riconoscerlo come il terzo tedesco. Primo, perchè non aveva mai avuto occasione di vederli da vicino, se non quando mangiavano, secondo, perchè il terzo tedesco portava gli stivali mentre il cadavere aveva le scarpe con quelle belle fibbie d’argento. Sembrava di essere arrivati ad una svolta ma ci si era arenati nuovamente. Se non era uno di quei tedeschi, a chi apparteneva quel corpo?

Per essere sicuri della testimonianza il magistrato Gradenigo interroga anche tale Lucietta cuoca alla Locanda. Ma non serve a molto, anche lei afferma di non poterli riconoscere.
Il tempo passa e non è più possibile tenere esposto quel cadavere che dava i primi segni della putrefazione, cosi il 6 di dicembre si da ordine a Giuseppe Fornesier masser dal Magnifico Eccelso Consiglio di tumularlo al Lido, nel cimitero dove si seppellivano gli annegati senza identità.

Ma resterà senza identità per sempre? A questo punto della storia, avviene una svolta alle indagini.
Dagli incartamenti del processo non si comprende la motivazione che portò il magistrato Gradenigo a decidere di far controllare la stanza dove erano alloggiati i tre tedeschi. Forse gli suona strana la testimonianza del locandiere, forse pensa che le coincidenze che fossero proprio quei tedeschi, sono troppe, forse, semplicemente, non ha altre piste da seguire e deve produrre risultati.
Non lo sappiamo. Ma il 13 dicembre manda alcuni fanti nella camera numero quattro della locanda. Avrà ragione. Quando tornano portano informazioni che stravolgeranno una semplice indagine per annegamento facendola diventare una indagine per omicidio. In quella stanza sul materasso ci sono evidenti macchie di sangue lavate e del sangue viene ritrovato anche sul capezzale.
Senza perdere ulteriormente tempo manda il fante Palaggi a sequestrare il materasso e fa arrestare il locandiere e la cuoca Lucietta Patella detta Senon, la quale, casualità, era anche la donna che puliva le camere e lavava la biancheria.

Al pomeriggio viene fatta estrarre dalle carceri proprio lei per prima. Il magistrato è tranquillo, mentre legge la paura sul viso della donna che aveva passato una mattina all’inferno. Con tono pacato le chiese se lei aveva visto delle macchie di sangue. La donna negò. Le chiese se per caso avesse pulito recentemente la camera. La donna annui. Allora le chiese come era possibile che lei avesse pulito quella stanza senza accorgersi delle macchie. A quella domanda la donna non seppe rispondere. La fece riaccompagnare alle carceri ed attese l’arrivo dall’altro accusato. Il locandiere.
La prima domanda che venne posta a Giovan Battista Scheneider fu come mai non si era stupito che mancava un terzo forestiero. Il ragazzo rispose che pensava fosse sotto coperta in gondola. Ma chi aveva rifatto i letti ? Lucietta. Come mai non avevano visto le macchie? Ma anche lui nega di aver visto le macchie e di averle pulite. Si è in stallo. Lo fa riaccompagnare in carcere. Forse c’è bisogno di più tempo in quelle celle per poterli ammorbidire. Per far si che comprendano che ci sono evidenti prove di un crimine.

Ora però, il magistrato ha un altro problema da risolvere, se i tedeschi c’entrano qualcosa ora saranno in viaggio, bisognava ritrovarli e velocemente.
Il giorno successivo viene interrogato Antonio Magro, nativo di Mestre e servitore alla Posta Pubblica, una uscita da Venezia. Magro si ricordava che alle ore 16 circa capitò una gondola veneziana a quattro remi con due forestieri. Furono portati fino a Treviso. Si fermò a Preganziol per far riposare i cavalli anche se loro non volevano, sembrava che avessero fretta. Dai pochi discorsi che aveva capito sembra che i due fossero dei servitori di un terzo uomo che però non era con loro. Viene ritrovato un altro testimone che si ricorda dei due loschi personaggi e afferma che aveva sentito dire che venivano da Vienna anche se erano Polacchi.
Il 16 dicembre il magistrato interroga Domenico Novello, chirurgo del Magistrato alla Sanità, residente a San Simeon Grande in Rio Marin. Quel chirurgo che tanto velocemente aveva chiuso il caso come annegamento. Il magistrato gli chiede di raccontargli come era stato affidato l’incarico. Novello racconta che aveva sentito dire da tre o quattro giorni da parte di un prete che era stato ritrovato annegato un uomo in rio della Panada, ben vestito. Lo aveva visitato il 4 sera alle dieci. Poi il giorno di sabato alle tre di notte ricevette l’incarico per il Magistrato alla Sanità, di rivisitare la mattina seguente il cadavere. Ritrovò il cadavere in una cassa sudicia e la fece aprire. Il cadavere presentava tre contusioni con lacerazione: una sulla fronte, una sotto il naso dalla quale usciva ancora sangue, un’altra al labbro superiore. Il magistrato gli chiese se non avesse avuto il dubbi che quelle ferite potessero essere la vera causa del decesso. Il Novello gli disse che per lui erano state provocate o nella caduta o quando fu tirato verso riva. Ma qualcos’altro lo aveva incuriosito.

Secondo lui, sebbene girasse voce che era morto annegato, poteva essere stato ucciso e gettato in acqua, questo per la poca acqua che aveva trovato nel ventre. Considerando poi che erano tre giorni che era esposto si poteva pensare anche che quei liquidi fossero quelli della putrefazione. Il chirurgo continua sostenendo che un uomo che cade in acqua si riempie velocemente i polmoni, quindi poteva esser morto di morte violenta o per veleno o per malattia, prima di finire in acqua dove lo avevano ripescato. Questo era quello che il magistrato voleva sapere. Il chirurgo continua dicendo che comunque se anche fosse stato il veleno ora era troppo tardi per riuscire a capirlo. Il magistrato Gradenigo è spazientito, ma perchè non aveva avuto quelle informazioni nella relazione? Perchè quei dubbi non li aveva comunicati? Il chirurgo si sente in colpa e suggerisce solo un altro dettaglio, ipotizza anche che essendo circonciso il cadavere poteva essere un ebreo. Non c’è dubbio. Il ritardo della prima perizia aveva portato l’indagine verso una pista lenta che sicuramente aveva dato la possibilità ai tedeschi di fuggire.

Il 28 dicembre del 1791 Domenico Palazzi fante dell’Officio dell’Avogaria consegna alcune lettere da spedire al Podestà di Conegliano, Podestà di Mestre e di Treviso, nella speranza di ritrovare quei tedeschi. Questa storia si chiude cosi. Nel fascicolo non c’è il bando, non c’è traccia se furono ritrovati, ma è ipotizzabile che riuscirono a scappare alla giustizia veneziana che per un errore aveva offerto loro la possibilità e questi non se l’erano fatta scappare. Non sappiamo nemmeno del locandiere e della donna delle pulizie cosa si decise di fare. Il tempo ha cancellato le tracce della fine dei protagonisti ed ancora oggi giace un cadavere al lido di Venezia senza nome e senza identità.

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